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Bbèlla, te vu mbarà a ffà l’amore, Canti e storie di vita contadina

Bbèlla, te vu mbarà a ffà l’amore, Canti e storie di vita contadina

2.1 Canti d’amore: il posto riservato a Cagnano

Cagnano, come altri paesi garganici, vanta una tradizione canora e musicale di un certo rilievo. Ciò è confermato dall’interesse di diversi studiosi che si sono occupati di questa eredità, sin dai primi decenni del XX secolo. M. Vocino,1 ad esempio, nel 1923 ha recuperato alcuni sunètte di Cagnano. Saverio La Sorsa,2 in Tradizioni Popolari Pugliesi del 1933-37, ha riportato numerosi canti, raccolti da alcuni maestri cagnanesi del tempo: Natale De Monte, Giuseppina De Guglielmo e Antonietta Mendolicchio. D. Carpitella ed E. de Martino nel 1958 hanno effettuato interessanti ricerche di etnomusicologia. Di recente, altri musicologi hanno puntato i riflettori sulla produzione canora popolare cagnanese: F. Nasuti3 e S. Villani.4 Il primo, nei Canti delle memoria ha riportato 15 strambotti (sunètte, serenate, strofette) e il secondo ha curato, oltre ad un libro, la registrazione di un CD con trenta brani, offrendo la possibilità di ascoltare testi di serenata accompagnati dalla chitarra battente, canti religiosi, in latino e in dialetto, e canti narrativi interpretati da pastori e da cantatori della congrega di San Cataldo. In questo modo si può assicurare la sopravvivenza di parte della lirica contadina, di cui si sta perdendo la memoria, anche se, quando gli ultimi vecchi non ci saranno più, probabilmente nessuno riuscirà ad intonare i canti e soprattutto ad esprimere le ansie e l’anima della loro civiltà.

2.2 Canti d’amore: tipologie

Il tema dell’amore ha appassionato l’uomo di ogni tempo, assumendo di volta in volta connotati differenti, con sviluppi legati ai modelli di vita e ai contesti culturali. Di questo sentimento, che alimenta sogni ed aspettative, che crea affanni e sospiri e che è alla base della conservazione della specie, si sono occupati scrittori e filosofi da sempre e di recente anche le nuove scienze umane e sociali. Ai testi di letteratura rinviamo i lettori interessati, mentre qui richiamiamo l’attenzione di chi intende effettuare con noi un percorso sul tema dell’amore e della donna, attraverso i canti tradizionali cagnanesi e garganici.

I canti popolari sono in genere brevi componimenti (li sunètte e lli manuuètte, li strufelètte, di Cagnano): versi intonati da pastori, che arieggiano usanze e abitudini del luogo; stornelli, contrasti, arie o macchiette eseguiti ad alta voce soprattutto dalle contadine, mentre eseguivano i lavori della zappatura, della mondatura e della raccolta, anche quando erano senza fiato; serenate d’amore e di “ sdegno”.

2.2.1 Strambotti (sunètte e manuuètte)

Le tipologie di componimenti popolari più diffuse a Cagnano sono giunte a noi con i termini di sunètte e manuuètte, che afferiscono al componimento noto in letteratura come strambotto. Questo strambotto, che nel contenuto riflette temi amorosi, vizi e virtù, espressi talvolta anche in modo satirico, si presenta strutturalmente in genere come ottava, un’unica strofa di otto versi endecasillabi ipermetri o ipometri, in rima baciata o alternata, oppure in assonanza. La Sorsa, definisce gli strambotti del Gargano

antichi strambotti indigeni, belli nella loro semplicità, nobili sinfonie che si sviluppano su una nota centrale, accompagnati da lunghe cadenze di cori. Essi sono le genuine melopee lente e polimetriche, con cui la vetusta razza anche oggi esprime i suoi affetti gentili, i suoi sentimenti. 5

Afferma inoltre che

L’ottava è la strofa più diffusa nei canti popolari e quasi sempre ognuna costituisce un canto a sé, racchiude un pensiero, un’immagine completa. E’ generalmente costituita da due rime, quattro volte alternate, e se queste mancano, c’è in sostituzione l’assonanza. Manca la chiusa di rime baciate, che è propria dell’ottava letteraria.6

 Questo componimento popolare, chiamato anche “rispetto”, secondo alcuni studiosi avrebbe avuto origine pressoché contemporaneamente a Napoli e a Firenze, alla fine del 1400; secondo altri sia la struttura, sia i suoi contenuti rinvierebbero, alla tradizione della scuola siciliana e giullaresca e sarebbe nato prima nell’area meridionale e poi in Toscana. C’è convergenza degli studiosi sul suo contenuto popolare. La Sorsa afferma infatti: nato probabilmente “nei pagliai di solitari campi o sul lastrico di piazze cittadine, [lo strambotto] fugge le piazze dei ricchi”.7

L’ampia diffusione dello strambotto sembra dimostrare l’esigenza, della componente meno dotta della popolazione, di seguire un modello letterario per esprimere dei sentimenti. Diffondendosi nelle diverse aree geografiche e col trascorrere del tempo, si sono verificate delle contaminazioni, perciò lo strambotto, sia a livello formale, sia a livello interpretativo, ha subito delle trasformazioni, adattandosi all’idioma e alla cultura locale, oltre che alla comunità dei parlanti, nei quali la lingua continua ad evolversi, rinsanguando lo stesso italiano. L’esecuzione-interpretazione, che in genere si discosta dal testo verbale scritto o recitato, a livello di ciascun paese, assume inoltre connotati particolari.

Anche lo strambotto [manuuètta e sunètte] di Cagnano è strutturato in genere in ottava e riflette le trasformazioni evidenziate. Ma cos’è lu sunètte? Cos’è la manuuètta? Quale differenza passa tra le due composizioni? Qual è la loro etimologia? Con l’intento di dare una risposta a questi interrogativi, ho raccolto testimonianze orali e ho attinto dalla letteratura.

Prendendo atto degli studi di ricercatori affermati nel settore della etnomusicologia, si ha modo di constatare che lu sunètte attraversa pressoché tutti i paesi garganici. Questa realtà porta ad accogliere l’ipotesi di F. Nasuti secondo la quale  prima era lu sunètte, che faceva riferimento a tutto il corpus di strambotti che, sin dal medioevo, ha costituito l’intelaiatura del canto popolare-lirico italiano.8

Poi, col trascorrere del tempo, i cantori-esecutori hanno aggiunto versi e filastrocche nel corso e a fine componimento, conferendogli caratteristiche tipiche del luogo. Queste composizioni: strusce e sunètte di Monte Sant’Angelo e Mattinata, sunètte e strufètte di Carpino, strapulètte e sunètte di San Giovanni Rotondo, strapulètte e sunètte d’Ischitella,9 ai quali possiamo aggiungere manuuètte e strufelètte di Cagnano, contengono quasi sempre accenni a richiami amorosi espressi con traslati, elementi erotici assenti negli strambotti originari. Va detto inoltre che la struttura musicale delle forme- sia pure modificate e adattate ai diversi dialetti- riflettono il linguaggio  musicale della tarantella.10

S. Villani ricorda che le due forme canoro-musicali più diffuse a Carpino sono lu sunètte e la canzone, che si differenziano non nel testo verbale, ma nell’articolazione melodica, nell’esecuzione:

li sunètte sono ad andamento sillabico, mentre la canzóne (canto a distesa) presenta una diffusa vocalizzazione del testo verbale, con lunghe note tenute.11

C’è dunque analogia nella struttura ovvero nella formalizzazione letteraria del testo verbale di sunètte e canzone (costituito in genere da otto versi endecasillabi articolati in quattro distici), mentre c’è differenza nell’interpretazione.

Vediamo ora cosa accade nelle forme più rappresentative dei canti popolari cagnanesi, costituite – come si è detto – da sunètte e da manuuètte.

Manuuètta e sunètte, a detta degli intervistati,- pochi per la verità, perché gran parte di essi ha risposto con un “non so” o con un “non ricordo”- avrebbero una identica struttura e medesimo contenuto, mentre la differenza sarebbe riposta nell’esecuzione, prevedendo nel primo caso apertura col secondo emistichio, ripetizioni ed esecuzione in certi punti sillabata, nel secondo caso suoni prolungati, soprattutto ad inizio del verso (o del distico) e alla fine.  Il sonetto procede in genere per distici, esordisce con Ahhhh o con Uhé, pronunciati con voce alta e gutturale. Dopo il distico c’è l’intermezzo musicale. Lo schema melodico, può variare, inoltre, assumendo connotazioni particolari, in base alla bravura e alla sensibilità del cantore.

Il sonetto-strambotto di Cagnano, dunque, (che, sebbene abbia una lontana parentela, non va confuso con il componimento letterario classico, costituito da quattordici versi endecasillabi raggruppati in due quartine e due terzine), inizia con un’esclamazione pronunciata con tonalità molto alta e con un suono prolungato, per snodarsi poi in tono melodico e chiudere in modo originale e personale, più o meno come segue: Ahhhh… scapellata, uaglióna scapellataaa.

Il rituale del sonetto vuole, inoltre, che il cantore porti la mano all’orecchio mentre segnala la sua presenza, con quell’ ahhhh prolungato, acuto e forte, come di chi soffre di un dolore indicibile, che ha la durata di circa dieci secondi. La donna, insomma, non poteva non udire o restare indifferente a quel richiamo. I particolari del rituale non sono sfuggiti a nessun intervistato e hanno sorpreso anche me soprattutto nell’udire una registrazione, risalente alla fine degli anni Cinquanta, eseguita dall’agricoltore Michele Frattarolo che, durante la sua passionale, originale ed efficace interpretazione, si è lasciato sfuggire il seguente commento accorato e nostalgico:

Ah canzune de tand’anne addréte!… Mamma … !

La manuuètta presenta invece un ritmo spezzato, ripetizioni, esecuzione piuttosto sillabata, interpretazione anch’essa singolare, la cui efficacia è legata, anche in questo caso, al cantore-esecutore. La manuuètta è decisamente più allegra, si associa all’armonia del ballo, alla tarantella, e termina con una o più strofette, vvola e llà… È accompagnata con le castagnole e con il tamburello. Entrambe le composizioni sono eseguite a voce alta, emessa di gola, tanto da rendere talvolta difficoltosa la decodificazione, come ciascuno può verificare dalle pagine musicali allegate. 

Avendo ancora qualche perplessità e per affettuare qualche raffronto, ho consultato alcuni signori dei paesi limitrofi: San Nicandro, San Marco, Ischitella, Carpino, San Giovanni, ed ho avuto la conferma che il termine manuuètta è pressoché sconosciuto- d’altro canto anche a Cagnano solo pochi signori anziani ne conservano il ricordo.

Anche se le testimonianze orali mi hanno lasciata nel dubbio, alla luce di alcuni testi raccolti e a seguito di qualche inferenza, ho ipotizzato che il sonetto di Cagnano escludesse la strofetta finale. Tale congettura ha poi trovato conferma anche nell’affermazione di Villani:

Canzune o manuuètte erano ad andamento sillabico con stereotipi conclusivi, mentre lu sunètte era un canto vocalizzato senza stereotipo.

Il sunètte di Cagnano presenta in definitiva analogie con la canzone di Carpino, mentre la manuuètta di Cagnano pare essere nota a Carpino, a San Giovanni Rotondo e a Monte Sant’Angelo come sunètte.

Una stessa forma espressiva, si prestava, inoltre, a differenti modalità esecutive. Il sonetto di Carpino, ad esempio – così come informa il signore Piccininno- era cantato perciò: alla mundanare (conservando un andamento melodico, lento), alla rurejana (con ritmo allegro, ballabile) e alla vestesana (con esecuzione lenta, che si avvicina a quella detta alla montanara). C’era anche la modalità alla cagnanese– bella anch’essa- afferma il cantore- e che risulta ancora più lenta e lamentevole. Di tutte queste modalità mi ha offerto un saggio.12 Altri interlocutori cagnanesi affermano, infine, che lo stesso testo poteva essere eseguito sia a manuuètta, sia a sunètte.

Quanto all’etimologia di manuuètta e di sunètte pare si possa uscire dall’incertezza. La manuuètta secondo alcuni interlocutori è il temine dialettale di “manovella”, un dispositivo utile per mettere in rotazione qualcosa tramite la forza della mano, ma è anche un canto popolare, che invita al ballo della tarantella. C’è dunque analogia tra l’attrezzo e il canto: entrambi fanno “ruotare”. E se la manuuètta ha acquisito contenuti più volgari- sempre secondo gli intervistati- lu sunètte, essendo privo di strufulètta, conserva un’accezione più nobile.  Sotto questo profilo il sunètte-strambotto di Cagnano potrebbe essere l’antenato del sonetto letterario, cui sarebbe pervenuto con l’aggiunta di altri sei versi.

Sunètte: Ahhhhh… scapellata, uaglióna scapellata! 13

Ahhhhh… scapellata, uaglióna scapellata

Uéhi piccerèlla a llu zite è scapellata!

Ah… sèrpa néra, che tu scèndi tra le mura!

Ah… capa calata e disturbata céra (bis)!

Ah… t’hé’ ditte bbonaséra e nne mm’ha’ respòste!

Ah… ma qualche mmala lingua t’ha pparlate (bis)!

Ah… male de mè t’ha dditte e ttu l’aje credute!

Ah… t’avéva avvesate da prima e nno mm’aje scoltate (bis)!

Ah… facìmece lu cunde, spezzame li taglie! 14

Ah… quille ch’avanze ji te l’abbandóne!

Ah… quille ca lasse tu, la casse è pprònde!

Ah… li vascë che tu m’ha’ date io non te li néghe!

Ah…. Famme la recevute chè mò te paghe.

Ehi, piccerèlla sinde,

famme la recevute chè mò te paghe.

Tra una frase e l’altra c’è un intermezzo musicale, accompagnato con chitarra battente.15

Nennèlla ne nde mètte cchiù a lla pòrta (manuuètta)

Nennèlla ne nde mètte cchiù a lla pòrta

E qquanda vóte passe ji te véde

A lli capille chi ce avite ndèsta

Ce chiàmene chinzóla-cristiiane

Te prèghe bbèlla nò ndi li ndriccià

Fattìli a ddói nnòcche, làscele appise

Scjata lu vènde e lli vò sbalijà

Jèsce lu sóle e li fa sderlucì.

Sderlucì palòmme

E ccóm’e ttè ni ngi ni sònne

Vóla éhi vóla

e ddimme tu li tua paróle

à llu pìiacére

vènghe qqua n’avìta séra

Pìiacére ngi ni sta 

Jì mi vài pure a quà.16

L’esecuzione della manuuètta prevede l’inizio con il secondo emistichio del primo verso (in questo caso con mètte cchiù a lla pòrta), quindi il ritorno al primo emistichio (Nennèlla ne nde mètte), ripetuto due volte. Nei versi 3-5-7 si assiste al ritorno al primo emistichio, ripetuto due volte. In coda alla mauuètta è la strufelètta, in questo caso costituita da sei versi. Il testo cantato si presenta pertanto come segue:

Mètte cchiù a lla porta

Nennèlla ne nde mètte

Nennèlla ne nde mètte

chiù a lla porta e quanda vote pàsse,

ji te vède a lli capìlli chi …

Chi ci avìti ndèsta

A lli capilli chi

A lli capilli chi

ci avìti ndèsta Ce chiàmene chinzòla

Crestìiane Te prèghe bbèlla no …

No nde li ndriccià

Te prèghe bbèlla no

Te prèghe bbèlla no nde li ndriccià

Fattìli a ddòi nnòcche,

làscele appìse

Scjàta lu vènde e li …

Li fa sbaliià

Sciàta lu vènde e li

Scjàta lu vènde e li vo balijà

Ièsce lu sòle e li, …

fa sderlucì palòmme

E ccòme a ttè ne ngi ni sònne

Vóla éhi vóla

e ddimme tu li tua paróle

à llu pìiacére

vènghe qqua n’avìta séra

Pìiacére ngi ni sta 

Jì mi vài pure a qua

2.2.2 La strufulètta

All’ottava della manuuètta il cantore ha facoltà di aggiungere dei versi di chiusura, una sorta di filastrocca, messa appunto in coda al componimento fondamentale, nota nei paesi garganici come strusce e struscelicchie (Monte Sant’angelo e Mattinata), strufètte (Carpino), struscètte (Ischitella) strufulètta (Cagnano), stramulètta (San Marco in Lamis) e strapulètta (San Giovanni Rotondo). Questi versi di chiusura, spesso non hanno attinenza con il contenuto e il motivo di fondo espresso nel testo, pare infatti “posticcia”. Ciò non deve sorprendere dato che, come affermano anche altri studiosi, i versi che di solito chiudono lo strambotto, non sono che degli stereotipi che si aggiungono al testo, scelti liberamente del cantante. Per dirla con La Sorsa,

Le strofette di Cagnano, di Peschici, di Rodi, di Lesina, come le canzoni di ballo, i canti dei mulattieri e dei mietitori hanno sovente movenze gaie e spigliate, che contrastano con i canti d’amore, nei quali si nota una maggiore austerità di pensieri, un profondo senso di malinconia. 17

Donne di Cagnano

Nella manuètta sopra riportata, ad esempio al cantore è stato sufficiente riprendere il secondo emistichio, fa sderlucì (presente nell’ultimo verso), e proseguire cantando:

Sderlucì palòmme

E ccóm’e ttè ni ngi ni sònne

Vóla éhi vóla

e ddimme tu li tua paróle

à llu pìiacére

vènghe qqua n’avìta séra

Pìiacére ngi ni sta 

Jì mi vài pure a quà

Questi versi di coda riflettono in genere contenuti erotici, espressi con traslati, termini allusivi dei genitali maschili (cardille, pazziarille, baccalà) e femminili (véna, frijóle), oppure il desiderio di condividere spazi e tempi con la donna amata, o il permesso di corteggiarla, come in Nennèlla.

Tratto da Bbèlla, te vu mbarà a ffa l’amore, Canti e storie di vita contadina, Leonarda Crisetti Grimaldi, 2004

INDICE

13            Prefazione Pietro Saggese, 14

17            Prefazione Francesco Granatiero, 17

21            Trascrizione fonetica, 21

22            Prefazione dell’autrice: Oggetto della ricerca e contributi; Pianificazione del lavoro; Gli autori dei canti popolari; La difficoltosa trascrizione-interpretazione dei testi; L’importanza del dialetto.

SEZIONE 1: I MESTIERI

Cagnano Varano (foto)

1 I mestieri, 28

1.1 Il contesto, 28

1.2 Canti che hanno viaggiato, 29

1.2.1 I mesi dell’anno, 33

Utensili della civiltà contadina (foto) 

1.2.2 Lu cafóne a llu patróne, 40

1.3 Le storie di vita, 41

1.3.1 La mietitura, 41

1.3.2. L’óva de Pèllanéra, 43

La mietitura (Foto Diego Mendolicchio),

1.2.3. Óhi ma’ óhi ta’ 1,

1.2.4. Óhi ma’ óhi ta’ 2,  46

Il pastorello (foto), 47

1.2.5. La mamma la vuléva maretà, 48

Scarpe grandi per un ragazzino (foto)

1.3.3. Lu scarpare, 50

1.3.3.1 Un artigiano intraprendente, 51

1.2.6. La cambagnóla, 52

1.2.7. Cummara, cirne cirne, 53

Donna che fa il pane (foto),53

1.2.8 Ciuciurumèlla, 54

Laguna e pescatori (foto), 54

1.2.9. Nu jurne me ne jéva pe la vija de la fundanèlla, 55

1.2.10. Celate jè stu pajése, 57

Donna che fila (foto), 58

La raccolta del cotone, (foto Michelina Grimaldi), 59

1.3.4 Mestieri estinti: filatrice e tessitrice, 59

1.3.5 L’imbottitrice, 60

Classe 2B che simula l’imbottitrice

1.3.6Mestieri maschili estinti: lu vardare, 63

Li varde (foto), 63

A lla fundana Do mBètre (foto), 64

1.3.6.1  Do mBètre e llu tròppe è ttròppe, 65

Foto: Do nGiccìlle e gli alunni del Regime, 67

1.2.11. E scappa da la Pugghia, 68

1.2.12. Quanne lu piscatóre va piscanne, 70

I pescatori e la laguna di Varano (fotoD. M.)

A lla pèsa di Bagni (foto D. M.), 71

1.2.13. Megghièrema a llu friscke e i’ a llu sóle, 72

1.3.7 Il pescatore e il contadino, 73

Il contadino (foto Matteo Iacovelli), 73

1.2.14. ’I quand’è bbèlla la patróna mija, 76

1.3.8 Patrune e gardzune, 77

La tosatura (foto D. M.) e il pastorello, 79

1.3.9 Il vissuto di Giovanni,    80

Tratture e massarija (foto), 82

1.3.10. Lu macerale, 83

1.3.10.1 Vatte a  ffedà de l’ammice, 84

1.2.15. Marìtema sta a lla Mèreca , 87

1.3.11 Cagnane nn’è pajése de bbanna! 89

La fanfara di Cagnano (foto D. M.), 90

1.3.12 Mastre Totònne la fèmmena e foto, 91

SEZIONE 2 L’AMORE E LE FORME POETICHE          

Il centro storico (Foto Donnanno), 96

2.1 Canti d’amore: il posto riservato a Cagnano, 97

2.2 Canti d’amore: le tipologie, 97

2.2.1 Strambotto (Manuuètte e ssunètte), 98

2.2.1.1 Ah scapellata uaglióna, scapellata, 101

2.2.1.2 Nennèlla ne nde mètte cchiù a lla porta,103

Donna alla loggetta (Foto D.), 102

2.2.2 Strufulètta, 105

Spartito Ah scapellata uagliona, scapellata, 106

Spartito Nennèlla ne nde mètte cchiù a lla porta 107

La serenata (dipinto Donatacci), 108

2.2.3 Serenata, 109

2.2.3.1 Quanne av’a vinì nn’è venute, 109

Spartito di canto di serenata, 113

2.2.4 Stornelli,      114

2.2.4.1 Fiore di ngigghie,114

2.2.4.2 Fior d’inzalata, 115

2.2.4.3 Vuliva all’acqua, 115

2.2.4.4 Vuliva nèra, 115

2.2.5 Macchiette, 116

2.2.5.1 Ma statte citte tu, 116

Spartito di stornelli e di macchiette, 117

2.3Canzoni d’amore  e di sdegno,118

2.3.1Bbèlla che sta’ ngòppe a ssa mundagna, 118

2.3.2Òcchie nerille e ccóre de duje amande, 119

2.3.3 Dònna, nda lu tuo ciardine ce sònghe state, 119

2.3.4  Faccia de remungèlle ngiallenute, 120

2.3.5 Nen t’avantanne donna che m’ha cacciate, 120

2.4 Strumenti musicali di accompagnamento, 121

La chitarre di Cagnano (foto), 121

SEZIONE TERZA: RACCOLTA DI CANZONI D’AMORE, D’OCCASIONE E STORIE

3.1 Strufulètte cagnanesi         , 124

3.2 Canti d’amore e di sdegno: strambotti, 127

3.2.1 Cóme la rósa sulla vèrdo spina, 127

3.2.2 Funèstra che te tènghe faccefrònde, 128

3.2.3 Sije bbèlla, ca dumane jè ffèsta, 129

3.2.4 Quarandasètte jurne sònghe state unèste, 131

3.3 Le storie di vita:

3.3.1 Il rito della Quarandanna, 132

3.3.1.2 Esperienza della Quarandanna (foto), 135

3.2.5 Bbèlla, se te vu’ mbarà de fà l’amóre, 136

3.2.6 Ah, se te ngundrasse n’àveta vóta! 137

3.2.7 Zetèlla ca si’ mmissa a llu tuo suprane, 138

3.2.8 Parte e pparte e nne vurrija partire, 139

3.2.9 Rendinèlla che vvaje pe lu mare, 141

3.2.10 Sò gghiuta cammenanne picculina, 143

3.3.2 L’ammasciata, 145

Lucia e Giovanni (foto), 147

3.2.11 Cchè ppéna e cchè ddelóre jè llu mija, 148

3.2.12 Affàccete a lla funèstra, parma d’argènde, 149

3.2.13 Bbèlla dònna, che ppurte dóje róse mbètte, 150

3.2.14 Bbèlla, l’òcchie tóje sò dduje fijorille, 152

3.2.14.1 Spartito Bbèlla, l’òcchie tóje sò dduje fijorille,

3.3.3 Antonio Piccininno, cantore Carpino, 155

3.2.15 Ehhhh de prime amóre e tte vènghe a ssaluto! 156

3.2.16 Oh bbèlla, che st’òcchie tuue m’hanne allegate! 156

Cantore di Carpino (foto), 157

3.2.17 Vvole a Ddije e llà, 158

3.2.18 La matina quanne ohinè ohinà, 159

3.2.19 Prima d’arruuà salute li mure, 160

3.2.20Na dònna me vò dà quatt’aulive, 162

Donata   (foto),    164

3.3.4 Non sempre la zita era da preferire lla maretata, 165

3.2.21 Nda sta strata ce aje chiandate n’arche, 172

3.2.22 Affàccete a llu bbalcóne, óhi bbèlla mija, 174

3.2.23 Mamma, quande jè gàvete stu palazze! 175

3.2.24 Nda ssa strata ce hé chiandate na vite, 176

3. 3.5 Ce hanne ngappate a rRusunèlla!, 178

Donna che vuota lu càndere (foto D.), 177

3.3.6 A rRachelina ce l’ànne purtate! 179

3.3.7 La ngappata e lla fejuta, 179

3.2.25 Vide cchè bbèlla luna, cchè bbèlli stèlle 180

3.2.26 Custandina nda la medzana, 181

3.2.27 Passe e ppe nu bbóne passe me ne jèsse, 182

3.2.28 Figghia de puttana, gammatòrte, 183

Interno camera (foto), 183

3.2.29 Dònna, ch’ha’ fà de nu vècchie baffute, 184

3.2.30 Na fèmmena cinghecènde ce chiamava, 185

Interno camera (foto), 186

3.2.31 Faccia de crapa salevaggia,            187

Bimbo in fasce, (foto Paolino), 188

3.2.32 Nda ssa strata no nze pò ppraticare, 189

3.3.8 La nascita, 191

3.2.33 Donna, che nn’ha da fà de ssu pataline! 193

Largo Purgatorio (foto D.), 194

3.2.34  Chè vva’ facènne da ddò ssu guappe guappòtte, 195

3.2.35 Bbèlla che ddurme nda ssu lètte de Léte, 196

3.3.10 Prima e dopo il matrimonio, 197

Foto: Il corteo nuziale, 199

3.2.36 Pòvere m’ate ditte, pòvere sònghe, 200

Foto Trabucco

3.2.37 Bbèlla ca ni ngi po’ cchiù riparare, 202

3.2.38 Bbèllu sunatóre che ssóne ‘sta chetarra, 202

3.2.39 Quèssa è la strata de li vicce vacche, 202

3.2.40 Affàccete cìmece rusce e ppuzzulènde, 203

3.2.41 Nda ssì strate sta ‘na quagliarèlla, 203

3.2.42 Ne nde fa gàveta quanda lu mare, 204

3.2.43  Scùseme, bbèlla, ca ce ne va lònghe, 204

3.2.44 Facciatònna ccóma nu bbucchére, 204

Spartito Facciatònna ccóma nu bbucchére, 205

3.2.45 Bbèlla dònna che ffa’ la cavezètta, 206

3.4 Stornelli, 207

Fior di viole, Fiore di rosa, Fiore di lino, Fiorin Fiorello, Fiore d’arancio, Fior di trafòglio, Fior di lombazza, Larillarilla, Fiore di ngigghie, Fior d’inzalata, Fior di papagna, Fior di patata, Fiore di pépe, Fiore di lino, Fior di finocchio, Fior di menduccia, Fiore di canna, Fior di ginestra, Fiore di mènda, Fior di fagiolo, Tu macchia d’accio, Oh quande rose!, Oh quande lune!, Oh luna, sole!, Oh quande stelle!, Oh Ddio che rrabbia!, Oh Ddio che ppéna!, Filo di séta, Spica di grano, Fiore di lino, Fumo di réte, Fiore d’amènda, Fior di limone.

3.5 Macchiette, 212

Se m’h’a candà a mmè, Affàcciati a lla funèstra, Che tte vonna accide …, Dderéte la pòrta tua,  E mmò passa lu tréne, Quando ti lavi la matina, E ssi ce n’amm’a jì, La vóce mija jè gàveta, Vurrija spaccà lu mare.

Raccolta delle olive (foto Paolino), 213

3.3.11 La raccolta delle olive 214

3.6 Canti che ironizzano su persone e luoghi, 217

3.6.1 E lli fèmmene de lu Caùte,

3.6.2 E lli fèmmene de lu Casàle

3.6.3 E lli fèmmene de Palladìne

3.6.4 E lli fèmmene de li Case Nóve

3.6.5 Jame a llu Sugghiature

3.6.6 ’ zóna de la Vadiannina,

3.6.7 ’ zóna li Fulecare

3.6.8 E  vija de lu Currére,

3.6.9 E  vija, de la Vaddata

3.6.10 Ndréa  Ndrejaccióle

3.6.11 Do nGustine Pedatèdda Casale (foto D.), 218

Arco di San Michele (foto D.), 219

3.6.12 Pare la figghia de…, 220

3.7 Canti narrativi, 221

3.7.1 Bbèlla ggiòvena, si’ nnata la matina de li Sande

3.7.2 Nu jurne me ne jéva vigne vigne

3.7.3 Vurrija fà la sòrte de lu galle

3.7.4 Sa nGiuvanne

Piero Esposito, cantore Cagnano (foto)

3.7.5 E ppo’ salute a ttè, ccara biondina

3.7.6 Cara nennèlla mije, facime pace

3.7.7 Quèssa è la strata de lu nòbbele fióre

3.7.8 Che ll’amm’a candà ffà lu cande a mmale?

230         3.8 Canti dal carcere,

3.8.1 Abigeato e legalità

3.8.2 Ce stéva nu ggiuvenotte che l’amóre facéva

3.8.3 Vedevèlla quanda si’ tenace

3.8.4 E ddesgraziate pe mmè fu quillu jurne

3.8.5 Lu vucèdde lu tiéne pe nnatura

3.9 Canti di ninnananne e trastulli, 

3.9.1 Ninna ninna ninna nanna

3.9.2 Ninna, ninna, ninnarèlla

3.9.3 La mamma de stu uaglióne jè gghiuta fóre

3.9.4 Ninna oh  ninna oh

3.9.5 Nave navèdde

3.9.6 Ninna oh  ninna oh

3.9.7 Ndine e ndine e ndèlle

3.9.8 Nda la ccru vecèdda

3.9.9 Ciòcche ciòcche li jatte

3.9.10 Luna, luna nóva

3.9.11 Quand’è bbèlla

3.9.12 Sanda Rósa è gghiuta all’orte

3.10 Canti d’amicizia, 234

3.10.1 Il tema dell’amicizia

3.10.2 Quanne vune te vè a ttruuà

3.11.3 È ttriste quèdda casa ca nge sta nènde

Le amiche (foto)

SEZIONE QUARTA:

241          IL SENTIMENTO RELIGIOSO E IL CULTO DEI MORTI         

Processioni (foto D.M.), 244

4.1 l tema religioso

4.2 Il ciclo delle feste

4.2.1 Carnuuale e Quarandanna

4.2.2 San Giuseppe e la fanója            

4.2.3 Settimana Santa

4.2.4 Tècchete la palma e ffacime pace

4.2.5 gGiuedija sande

4.2.6 La Madonna de lu Rite

4.2.7  8 maggio, San Michele

Grotta di San Michele (foto)

4.2.8 Appìccete, appìccete, luce

4.2.9 Lu prìngepe cavaliére

4.2.10 E nne mbòzze jì a mMunde

4.2.11 E Ssammichéle Arcàngele

4.2.12 La Madonna de li sccàttele

4.2.13 Il Corpus Domini

Altarini e processione (foto D.M.)

4.2.14 Sant’Antonio e l’abbetine

Bambini con lu manachicchje (foto)

4.2.15 San Giovanni e l’arte divinatoria

4.2.16 La Madonna delle Grazie

4.2.17 L’Immacolata: La stòria de lu mute

4.2.18 Santa Lucia: Solètta e tacita

4.2.19 Sanda Lucija éra tanda bbèlla

4.2.20 La Natività: Memorie natalizie

4.2.21 Quanne nascette Ninne a Bbettelèmme

Presepe e dolci tradizionali (foto)

4.2.22 L’Epifania.

4.3 La morte, 269

4.3.1 Il lamento funebre

4.3.2 Un lamento attraversa il Mediterraneo e va oltre  

4.3.3 Il lamento funebre cagnanese

4.3.4 Il ruolo del vicinato

4.3.5 Lu lutte, lu chenzóle

SEZIONE QUINTA:

280          ESTRAPOLANDO

Ragazza in costume cagnanese (fotoD)

5.1 Il tema amoroso e la visione della donna attraverso i canti    

5.1.1 Qualche riflessione al femminile, 282

Faccende di donne (Foto)

5.1.2 L’energia della donna contadina, 286

5.1.3 La sessualità negata, 288

5.1.4 La questione femminile: a che punto siamo?, 289

5.2  I cantori-interpreti dei canti del luogo, 290

5.3 La lingua cambia nello spazio, 291

5.4 La lingua cambia nel tempo, 292

5.5 La continuità col passato,             294

Donna in costume a llu Caute(foto D.)

APPENDICE

Canti tratti dalla raccolta del 1932-37 di S. La Sorsa, 296

BIBLIOGRAFIA, 313

NASTRI E CD, 315


1 Vocino M., in Visioni di Puglia, Il Gargano e le Tremiti, Roma, Ed. Alfieri e Lacroix, 1923.

2 La Sorsa,  Tradizioni popolari pugliesi cit.

3 Nasuti F., Canti della memoria cit.., con allegato CD.

4 Salvatore Villani, I canti e i suoni di Cagnano Varano (a cura di), collana diretta da Leydi e Sassu, Dir. Edit. Valter Colle, Centro studi Tradizioni popolari del Gargano, Rignano Garganico, CD; I canti tradizionali di Cagnano Varano cit…

5 La Sorsa, op. cit,pag 43.

6 La Sorsa, op. cit. pag 48.

7 La Sorsa, o. cit. pag 48 e 49.

8 Cfr. Nasuti, Canti della memoria cit. pag. 40.

9 Cfr. Nasuti op. cit. pp 40-42.

10Cfr. Nasuti, op. cit.  Presentazione pp 7-43.

11 Cfr. S. Villani, Canti e strumenti musicali tradizionali di Carpino, Centro studi tradizionali popolari del Gargano, Rignano Garanico 1997, pag 15.

12 Intervista al signor Antonio Piccininno, febbraio 2004.

13 Ah scarmigliata, ragazza scarmigliata! Ehi, piccolina per il giovanotto è scarmigliata! Ahi serpe nera, che scendi tra le mura! Ah testa bassa e sguardo imbronciato! Ah, ti ho detto buonasera e non mi hai risposto! Ah, ma qualche cattiva lingua ti ha parlato, ti ha detto male di me e tu le hai creduto! Ah, ti avevo avvisato e non mi hai dato ascolto. Ah facciamo i conti e rompiamo i tagli. Ah, quello che tu avanzi, te lo cedo! Ah, quello che tu lasci è pronto nella cassa. Ah, i baci baci che mi hai dato, io non ti nego. Ah, fammi la ricevuta, ora ti pago. Ehi, piccola, ascolta: – Fammi la ricevuta, che ora ti pago.

14 Facciamo i conti e rompiamo i tagli. In passato si effettuavano gli acquisti, segnalandoli sulle due parti di una bacchetta di legno che combaciavano: una restava nelle mani dell’acquirente-debitore e l’altra nelle mani del venditore-creditore. Cfr Conti tagli, Rére ascennènne, Granatiero cit. pag 111. Metaforicamente spezzame lu taglie del testo significherebbe cancelliamo ogni traccia del nostro rapporto, quindi ogni dare e avere.

15 Il lettore potrà comprendere meglio i  motivi di questa e di altre tipologie qui presentate, consultando le relative pagine musicali che troverà in seguito.

16 Bambina non ti mettere più alla porta e quante volte passo io ti riconosco dai capelli che avete in testa, si chiamano consola-persone. Ti prego, bella, non li intrecciare, raggruppali con due fiocchi, lasciali sciolti. Soffia il vento e li vuole scompigliare, esce il sole e li fa splendere. Li fa splendere, colomba, e come te non ce ne stanno. Vola, ehi vola, e dimmi tu le tue parole. Se hai piacere, vengo pure un’altra sera, se piacere non ce ne sta, io vado via di qua.

17 Cfr. La Sorsa, op. cit. pag 42.

 
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Pubblicato da su 14 gennaio 2021 in etnografia garganica

 

La frequentazione della grotta di san Michele di Cagnano Varano conferma il bisogno dell’Aldilà

La frequentazione della grotta di san Michele di Cagnano Varano conferma il bisogno dell’Aldilà

“A Cagnano Varano si racconta che un giorno un pastore, mentre pascolava gli animali, vide un bue scappare via veloce e infilarsi nella grotta, che è poco distante dal paese, attraverso un buco. Il pastore lo rincorse, ma non riuscì a prenderlo. Poi, all’improvviso, alla bocca di quell’antro cavernoso, in mezzo ad una gran luce, vide apparire l’Arcangelo San Michele. Il pastore corse subito a Cagnano per annunciare l’accaduto. Tutti i paesani si unirono a lui e andarono in grotta per potere vedere anch’essi l’Arcangelo. Cercarono di qua e di là, ma San Michele non c’era più. Trovarono, invece, traccia del suo cavallo e delle sue ali.”

Vestito di tunica e calzari, la spada corta, Michele, dopo avere lottato contro il “toro” – il diavolo dalla testa taurina e le orecchie appuntite che gli è sotto i piedi, simbolo delle ingiustizie subite dai pastori, i cui interessi confliggevano con i coltivatori, i ladri di bestiame, gli incendi, i serpenti attratti dal latte, i fulmini delle tempeste … – decise comunque di essere il custode dell’antro e la grotta di San Michele Arcangelo di Cagnano Varano, che è a due passi dal lago Varano e che entra nelle visceri del Gargano nord per oltre 50 metri, è divenuta luogo sacro a Lui intestato.

In questo antro cavernoso, che la tradizione vuole sia stato visitato anche da San Francesco d’Assisi, sono giunti dunque gli uomini e le donne della civiltà contadina per chiedere aiuto all’Arcangelo affinché li proteggesse dai terremoti, dalla siccità e dalla peste, perché tenesse lontano da sé e dai propri cari ogni malattia, affinché facesse cessare la guerra, perché rendesse meno difficile l’agonia che precede la morte.

San Michele è stato da tutti invocato, bestemmiato, venerato. Molti bambini sono stati battezzati nel suo nome.  Ricordo una filastrocca, che solevamo ripetere quando andava via l’erogazione della corrente elettrica  – cosa che in passato accadeva molto spesso – che recitava così:

“Appìccete, appìccete luce

C’àmma jì a sa Mmechèle

a sa Mmechèle sime arruàte

e la luce jè ppicciata!”

Un’altra, invece, che recitavamo quando “c’addurmèva lu pède”, diceva così:

“Ruspìgghete, ruspìgghete pède,

C’àmma jì a sa Mmechèle

a sa Mmechèle sime arruàte

e lu pède jè rruspigghjàte!”

Ci sono però anche storie, canti, preghiere – da me raccolte – che narrano la devozione del popolo all’Arcangelo, riconoscendogli gli attributi di giustiziere, taumaturgo e psicopompo.

La frequentazione della grotta di San Michele sul Varano è però molto più antica, come attestano gli strumenti litici, il vasellame, la pianta, l’antico altare, i quali lasciano supporre la grotta abbia dato stanza a culti orientali precristiani, di cui è rimasta traccia nell’acqua che stilla dalla roccia e si raccoglie nelle conche e nei pozzi, nell’“ala” che è dietro l’altar (che richiama la dea Varuna), nel “toro” (memoria dell’oplomanzia esercitata scagliando una freccia contro l’animale per chiedere responsi a Mitra), nei sedili di fronte all’altare maggiore (che confermerebbero la presenza di un Mitreo), nella scenografia disegnata in faccia all’antico altare (un volto ricciuto che sovrasta un rettile), che farebbe della grotta un tempio di Asclepio, il semidio fulminato da Giove perché curava le malattie dei corpi (cecità, malattie mentali), il guaritore che fece adirare Plutone, perché risuscitava i morti. Asclepio, indossando le vesti di un serpente, avrebbe pertanto dispensato oracoli (consigli) ai pellegrini nel sonno, nella grotta del Gargano, oltre che a Epidauro, per favorire il loro benessere psico-fisico.

La grotta è frequentata anche oggi da uomini e donne di ogni età, che giungono da ogni dove per soddisfare curiosità storiche, naturalistiche, bisogni estetici –  a pochi metri dal Varano, là dove la costa, un tempo generosa di pascoli e di olio buono, è un susseguirsi di insenature e di sorgenti poste di fronte a qualche faraglione –  ma soprattutto per motivi religiosi, devozionali, esistenziali.

Il  rituale dei visitatori è quello di sempre: percorrono il viale antistante, accendono una candela, si fermano davanti a ciascun altare, soprattutto all’altare di San Michele, guardano curiosi gli affreschi rupestri, l’ala di San Michele e il garretto del cavallo di san Michele, si bagnano con l’acqua alla pila di santa Lucia, lasciano traccia dei propri pensieri sul registro delle presenze. Perché nel mondo che cambia in fretta ciò che resta fermo è l’animo umano in ogni tempo bisognoso dell’Aldilà.

 
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Pubblicato da su 25 settembre 2019 in religiosità popolare

 

San Michele Arcangelo

L’8 maggio – dies festus di tradizione longobarda – si celebra la ricorrenza di San Michele l’Arcangelo taumaturgo, psicopompo, guerriero, tanto amato e bestemmiato a Cagnano e in tutto il Gargano.La grotta di San Michele di Cagnano Varano, ai piedi della laguna, s’interna nelle viscere della terra per 56 m con pareti rocciose contrassegnate da nicchie e cupolette. La volta si abbassa e s’innalza, presentando qua e là piccole stalattiti. Il pavimento – riabbassato per esigenze di culto- è tappezzato di basole, che attraverso i graffiti di mani e piedi lasciati dai visitatori, raccontano la storia dei pellegrini che hanno così voluto segnalare la propria presenza. La tradizione orale vuole che in questa grotta sia apparso l’Angelo guerriero e che vi abbia lasciato le ali, prima di proseguire il suo viaggio per Monte Sant’Angelo dove avrebbe deciso di dimorare per sempre. Le selci, il pozzo, la campanella, la pianta dell’altare maggiore, i complessi statuari di San Michele, San Raffaele e dell’Annunciazione, i resti frustici e vitrei, le lucerne, le pitture rupestri e altri particolari ci mettono a parte, però, di una lunga frequentazione, che affonda le radici nella preistoria, quando l’uomo si recava in grotta per praticare il culto delle acque, per incontrarsi con Esculapio, Calcante e altre divinità, prima dell’era cristiana, con San Michele dopo.“Famosa un tempo fu la spelonca dedita a San Michele lungi dal Gargano 12 miglia, vicino a Varano, città per le bestemmie degli abitatori già assorbita dal vicino gran lago, non sovrastando che la chiesa di Nostra Signore Annunziata, a cui un tempo fu annesso un monastero de’ Basiliani”- si legge in un documento del Seicento – il quale lascia supporre tra l’altro che la resistenza dei culti pagani nella zona deve essere stata molto forte, tale da richiedere di una nuova inaugurazione e la presenza congiunta in grotta dei tre arcangeli: Michele, Raffaele e Gabriele (come attestano i tre altari).Michele è l’angelo taumaturgo, che fa miracoli e tiene lontani peste, fulmini e terremoti, l’angelo psicopompo, che guida l’uomo e rende meno dolorosa la sua ultima transizione, l’angelo più amato e bestemmiato dai garganici e dai cagnanesi, l’angelo guerriero che sconfigge le tenebre.San Michele è festeggiato due volte l’anno: il 29 settembre e l’8 maggio. Date evocative sia dell’inizio e del termine della transumanza, sia della dedicazione della Basilica romana e del dies festus longobardo. Nel 1843, “l’afflusso de’ forestieri, provenienti soprattutto da Carpino, Ischitella e Rodi Garganico che dura da secoli”, lo sviluppo dell’ “industria armenti zia”, la presenza di “abbondanti pascoli” e la posizione favorevole, centrale rispetto al Gargano, spinse il sindaco pro tempore Giuseppe Palladino a chiedere all’intendente di Capitanata l’istituzione della fiera del bestiame da tenersi a Cagnano nei giorni 7 e 8 maggio di ciascun anno. Il flusso è, in ogni caso, continuo: ogni anno giungono nella grotta di San Michele di Cagnano Varano migliaia e migliaia di visitatori, chi mosso da interessi naturalistici, chi da curiosità storiche, chi spinto dalla devozione verso l’Arcangelo, come attestano le suppliche di perdono e di grazia, le richieste di protezione per sé e per la propria famiglia, i ringraziamenti dei pellegrini. Vengono da ogni angolo del mondo e indugiano nell’antro cavernoso allo scopo di provare quella sensazione di benessere psicofisico tanto richiesta anche ai giorni d’oggi. Nella grotta di San Michele sul Varano è possibile cogliere “il respiro di sana nudità”, “vederci in preghiera il padre Francesco d’Assisi”, provare “la sensazione stupenda di essere alla presenza dell’Arcangelo” – annotano infatti i visitatori sul registro delle presenze – convinti che sostando nella grotta di San Michele di Cagnano Varano sia possibile contrastare le energie negative dell’esistenza umana. Leonarda Crisetti (tratto da La Grotta di San Michele di Cagnano Varano tra Arte e Storia, Bastogi, 2010

 
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Pubblicato da su 10 Maggio 2021 in Senza categoria

 

San Cataldo protettore

10 maggio festa di San Cataldo, santo protettore di Cagnano dal XVI secolo, allorché è andato a surrogare il protomartire Santo Stefano. Dal XIX secolo San Cataldo è comprotettore di Cagnano insieme a San Michele.Di San Cataldo sappiamo che nasce in Irlanda nel VI secolo, che la sua nascita fu annunziata da una stella, che già da bambino manifestava grazie speciali. Animato una eccezionale vocazione religiosa, diventa poi sacerdote, ma un duca ambizioso lo fa condannare a morte: Dopo avere sofferto le pene del carcere, viene liberato da due angeli e da vescovo continua a fare opere di apostolato e carità cristiana. Si reca in Terrasanta a pregare sul Santo sepolcro. Al ritorno, lo si vede impegnato nell’apostolato civile e religioso presso la sede arcivescovile di Taranto. A San Cataldo il popolo di Cagnano nel XVII secolo dedica la chiesa-cappella omonima.Descrizione La Chiesa di San Cataldo, situata nel borgo intestato a suo nome, prospetta su Piazza Giannone. Vi si accede salendo alcuni gradini che si sono resi necessari nel 1897 allorché, sistemate le strade del paese, la porta d’ingresso era rimasta per circa un metro sopra il livello della piazza. Mostra in facciata il portale lineare, stemma, stipiti scanalati, trabeazione e timpano. L’interno consta di una sola navata (m 15, m 😎 e di due altari: 1. l’altare maggiore dedicato a San Cataldo, protettore dei cagnanesi, come conferma la statua allocata nella nicchia retrostante, che lo raffigura seduto con tiara in testa e pastorale in mano;2. l’altare minore dedicato a di Santo Stefano, protomartire e primo protettore, a sinistra della navata, dove sono anche le statue di Sant’Antonio e della Vergine. Nella parete a dx della navata si distinguono un arco datato 1604 attraverso cui, scendendo quattro gradini, si accede alla primitiva cappella dove sono la statua di Gesù morto, un quadro di San Pio, e un quadro a olio raffigurante L’Annunziata posto alla sommità di esso. Sul pronao c’è un organo.Cenni storiciFondata nel XV secolo fuori le mura, era all’origine una piccola cappella, di m 3,40 per 4m circa, quella che è oggi a dx dell’unica navata. Nel Seicento era ancora una cappella in mezzo a campi di grano. Nel 1750 secolo, quando Cataldo era già protettore terra Cagnani, la cappella possedeva, tra l’altro, una casetta con basso ad essa attaccata e confinante con l’ospedale. Nel 1950 la chiesa di San Cataldo aveva tre altari: l’altare maggiore, di fronte all’entrata, dietro al quale in una nicchia era la statua del protettore San Cataldo, a sinistra dell’ingresso quello del Santo Stefano, sopra il quale era l’olio della Lapidazione fuori le mura di Gerusalemme, a destra l’altare con statua di San Lazzaro e l’olio raffigurante l’Annunziata. Non si conosce la data dell’ampliamento della chiesa; è noto però che nel 1990, mentre erano in atto i lavori dell’ultimo restauro, curati del parroco don Michele Buenza, venne alla luce la cappella interna chiusa da un muro.Nell’Ottocento nella chiesa officiava la Congrega di San Cataldo che, per onorare la nascita del santo protettore, il 10 marzo di ogni anno fa accendere un falò. Grazie all’intercessione di detta Congrega presso l’arcivescovo di Manfredonia e il re Ferdinando II di Napoli, dal 1855 Cagnano ha avuto come protettore ufficiale anche San Michele. .+4

 
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Pubblicato da su 10 Maggio 2021 in Senza categoria

 

Le caste, saggio di Carmelo Palladino

Le caste, saggio di Carmelo Palladino


Chi non è preso da raccapriccio, non impreca alla barbarie dei tempi, e non invoca le aure fecondatrici della civiltà, al leggere il triste fato dei popoli orientali? Tutti, dal professore di filosofi a della storia, al saccentuzzo studente di licenza liceale, parlano delle caste; ed al sol ricordarle fremono indignati d’orrore. Che erano le caste?


Tra il 1871 e il 1872 Palladino scrive Le caste, un saggio che pareva introvabile e che ho infine rinvenuto in una biblioteca di Firenze, in cui l’avvocato sviluppa il tema delle diseguaglianze, che è alla base della scottante e tuttora
aperta questione sociale. Una lettera di Carmelo Palladino ad Antonio Murgo ci consente di risalire alla circostanza, al luogo e alla data della sua pubblicazione: “Nel 1873 – fa sapere infatti l’autore – [Zanardelli] mi richiese di un articolo per un almanacco socialista: glielo detti e fu stampato nel suo almanacco”.
Tenendo presente che l’Almanacco socialista per l’anno venturo di Tito Zanardelli è del 1873 e che l’articolo era già pronto a dicembre 1872, Carmelo deve averlo scritto in quell’anno, se non prima. Anche se il destinatario privilegiato
sembra essere il sud del Regno d’Italia, dove l’industrializzazione è pressoché assente, l’ignoranza è più diffusa, il divario tra ricchi e poveri è più accentuato, il saggio è rivolto a tutti i borghesi, responsabili dei destini dei popoli d’Europa, i quali negli anni complessi della transizione da un’economia artigianale e contadina ad una industriale continuano a tenere in piedi la stratificazione sociale. Lo scopo è quello di farli riflettere e di invitarli a rinunciare ai privilegi, se non vogliono che le caste diventino la loro tomba.
L’articolo costituisce, in ogni caso, un interessante affresco dell’Italia postunitaria, fondata sulle differenze economiche, culturali e sociali della popolazione, e attesta che sotto i Savoia, come al tempo dei Borbone, ognuno muore com’è nato, dato che nessun cambiamento positivo si registra nei primi dodici anni del Regno d’Italia. Oltre a denunciare la divisione sociale, il saggio dà spazio alla differenza di genere e ironizza sulla condizione della donna borghese, sì da fare supporre che l’idea di scrivere quest’opera gli sia venuta in occasione di una vicenda personale, un mancato fidanzamento, un innamoramento. È facile immaginare che ci siano state “ambasciate” e proposte nella Cagnano di quel tempo, fra la famiglia di Carmelo e quella di qualche ragazza di “buona famiglia”. Lo strale di Palladino
è però puntato – come accennavo – soprattutto sulla casta ladronaia [la borghesia], che ha costruito la propria ricchezza sui demani ex feudali usurpati. L’articolo prospetta che nella società che nascerà dalla rivoluzione sociale, il lavoro sarà dignitoso e interessante per tutti e la scienza si porrà a servizio del progresso umano. Nel saggio Carmelo sviluppa infine la tesi che la risposta alla questione sociale è nell’AIL, ovvero nell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, la sola che si proponga l’obiettivo di promuovere l’eguaglianza rispettando le differenze individuali e di restituire la dignità a ciascun lavoratore, maschio e femmina.
Nell’opera Carmelo mette insomma nero su bianco le sue riflessioni, sulla donna, sul matrimonio, sulla società, sui preti, sui filosofi , sulla scienza e sul lavoro, proponendo tesi condivise dagli anarchici di diverse generazioni, di cui Bakunin, Palladino, P. Kropotkin e C. Berneri costituiscono gli esempi più significativi.
L’autore esordisce domandandosi cosa siano le caste di cui tutti parlano. Risponde dicendo che esse sono “le diverse classi sociali in cui i popoli orientali sono stati gerarchicamente divisi” e rappresentano “in tutta la sua selvaggia tirannide, il principio d’autorità”: scendono infatti “dall’alto in basso”, esimono da ogni responsabilità chi sta al vertice e negano ogni diritto a chi è posizionato sulla base della piramide sociale. Al primo posto ci sono i sacerdoti, nati dalla
testa di Brahma e perciò depositari del sapere; al secondo gli Scetria che nati dalle braccia sono predisposti a fare i guerrieri; al terzo i Vasia, ovvero gli artigiani, che hanno il compito di trasformare la materia prima, prodotta dall’ultima e quarta casta, i Sudra, vale a dire gli schiavi che, essendo “surti dai piedi”, svolgono le medesime funzioni degli animali. La quarta casta costituisce perciò “l’istrumento” utile alla terza classe per produrre ciò che quest’ultima divora
insieme con le altre due. L’avvocato prosegue accennando al principio dell’autorità discendente delle caste indiane che, mentre dà agio a chi sta in alto, non riconosce la dignità degli inferiori, difatti “potea benissimo il Brahmino fare gli
occhi dolci alle fi glie dei guerrieri; potea menarle spose, ed esse doveano reputarsi onoratissime di essere elevate a tanta altezza […]. Del pari un guerriero potea scegliersi un’amante, od una moglie tra gli artigiani; e tutti insieme cercare tra gli schiavi se qualche fi ore smarrito fosse in tanta abbiettezza germogliato. Ma guai se si fosse voluto seguire l’ordine inverso, ed il componente una casta inferiore avesse levato gli occhi, ed aguzzato il desio verso le beltà che risplendevano nelle superiori. Era questo un delitto da pagarsi col capo”.

Più avanti Palladino confuta l’ipotesi di chi crede che le caste siano un ricordo del passato e individua alcune analogie con le divisioni sociali presenti in Occidente, dove al primo posto ci sono i sacerdoti, i nobili e i ricchi che, uniti da medesimi interessi, “formano una sola e terribile casta”, la casta “ladronaia”: presente ovunque, essa s’impossessa del potere, manipola la scienza e usa la ricchezza per esercitare ogni autorità. Alla seconda casta appartengono gli “eserciti permanenti”, i cui elementi – figli del popolo – eseguono ciecamente e violentemente gli ordini dei notabili, per tutelarli da chi intende attaccare “l’arca santa del potere e della proprietà”. Della terza casta fanno parte “i capi-fabbrica e gl’intraprenditori”, che Palladino elenca solamente. Nella quarta si trovano i miseri operai e gl’infelici
lavoratori dei campi che, strumenti nelle mani di proprietari e capitalisti, si distinguono appena dalle bestie. Come in un palcoscenico, nel saggio si avvicendano, quindi, personaggi caricaturali: il reverendo irriverente, al cui cospetto è
costretto ad inchinarsi il lavoratore; il borghese paffuto, che sdraiato nel cocchio fastoso irrompe tra la folla con i suoi cavalli e costringe tutti a fargli ala; la gran dama, “che sepolta nei suoi velluti aggrinza le nari, s’irrita, sbuffa incollerita se solo un monello o una cenciosa fi glia del popolo le passa dappresso”; il “povero diavolo di un contadino” costretto a levarsi il cappello, ad ascoltare le ingiurie del padrone e a riverirlo. Uno scenario molto più triste di quello presente nelle società orientali – prosegue l’avvocato – perché presso di noi, popoli liberi e civili accadrebbe il finimondo “se un cencioso, uno straccione, uno spiantato, un verme del volgo ardisse spingere il guardo fino a qualche Dea del mondo borghese”.

Palladino va poi alla ricerca delle conseguenze nefaste di quest’ordinamento sociale, che obbliga i maschi a condurre in sposa donne del loro medesimo rango, e le rinviene nell’indebolimento della “specie” dei borghesi, “lunghi e stecchiti, pallidi e scarni, scheletri ambulanti, ombre di uomini flaccidi, magri, pallidi già a vent’anni”. Le trova nei matrimoni contrattati e nell’infelicità delle donne benestanti, che vivono nell’attesa, non sempre coronata da successo, di
trovare un marito del proprio rango e che nel frattempo s’imbellettano per nascondere la propria laidezza. Abbozza qualche rimedio per rinsanguare la “specie” dei borghesi, da lui intravisto nel matrimonio intercasta.

La lunga tesi in premessa costituita dalla presentazione delle caste indiane e l’antitesi rappresentata dalla descrizione delle caste e dei costumi occidentali si ricompongono nella sintesi che vede entrare in scena l’Internazionale, la “bestia
nera” dei ricchi e dei potenti, che propone due antidoti a suo parere molto efficaci per contrastare i mali sopra citati: l’abolizione delle classi sociali e l’istruzione integrale degli individui di entrambi i sessi. Quest’associazione farà cessare le ingiustizie e le infamie della presente società e ne edificherà una nuova, senza più ipocrisie, frontiere o leggi che impediscano di amare chi ci piace o di svolgere il lavoro per il quale ci sentiamo portati. L’Internazionale darà il potere al popolo dei produttori – perché tutti lavoreranno declinando facoltà intellettive e abilità manuali – e restituirà la dignità a ciascun lavoratore di genere femminile e maschile, perché tutti saranno istruiti e potranno disporre del tempo libero tramite la riduzione delle ore lavorative.

Prendendo a prestito la tesi di Franklin, in base alla quale “se tutti gli uomini lavorassero, basterebbero due ore di lavoro al giorno per produrre quello, che ora si produce in quindici”, Palladino confuta le affermazioni dei “cianciatori di economia” per i quali diminuendo le ore di lavoro decresce la ricchezza e la prosperità di un popolo.

Mentre l’articolo volge al termine, l’avvocato fa l’apoteosi del lavoro dignitoso, che egli propone in alternativa a quello
disumano, e della scienza positiva, che contrappone a quella sofi sta. Auspica che lavoro e scienza sin qui divisi si stringano la mano per aiutare l’uomo a migliorare le condizioni materiali e morali della propria esistenza e a costruire un mondo più umano. L’avvocato passa, infine, in rassegna gli ostacoli frapposti dalla casta
dei reazionari, interessata a conservare lo status quo ante: “L’Internazionale – si legge nella chiusa – è proscritta dai re, dai ricchi, e dai padroni. I preti l’anatematizzano; i governi di tutti i colori convengono, e s’intendono sulla scelta dei mezzi per schiacciarla, distruggerla, estirparla col ferro e col fuoco d’in sulla terra; ed i borghesi non potendo far altro, l’odiano a morte”. Egli è però fiducioso che l’AIL vincerà le resistenze dei conservatori essendo espressione dei bisogni del popolo vivente, il quale è invincibile e immortale. L’Internazionale seppellirà anche i borghesi se non rinunceranno alla casta. “Dunque scegliete – intima infine –: o non più caste; o le caste saranno la vostra tomba!”.

 
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Pubblicato da su 30 aprile 2021 in storia

 

Ci portiamo dietro il fardello del passato

Ci portiamo dietro il fardello del passato

Sollecitata dalle domande di una giornalista de l’Attacco volte a scoprire l’identità delle città garganiche e il cambiamento, dissi in premessa che ogni generalizzazione è ingenerosa perché non dà conto delle singolarità presenti in ogni paese e che, in ogni caso, mezzo secolo di studio profuso sul territorio mi porta a pensare che il popolo di Cagnano – come quello di altri comuni del promontorio – si porti dietro il fardello del passato segnato da secoli di miseria, di angherie e di soprusi subiti sin dal medio evo e che, perciò, non possa dirsi ancora libero.

Donne e uomini che hanno lavorato non a caso “a padrone”, il quale si comportava con le donne lavoratrici allo stesso modo del loro marito : “E’ come quando un marito sfèssa la megghièra: – Palàte e bbòtte à sta sòtta, e visto che avevo bisogno di lavorare, dovevo stare zitta e quieta, altrimenti non mi faceva andare più”- racconta infatti la signora Giovanna .

Naturalmente si tratta di una mia opinione, supportata da constatazioni e testimonianze raccolte nel tempo, come quella del signor Natale Pedicillo fabbro disoccupato che nella lettera datata 25 aprile 1941 scritta a Mussolini denuncia i soprusi dei “comandanti” locali, che li vogliono sfruttare o, come scrive lui “schiacciare sotto i piedi”:

(…) Non ci fa paura che stiamo disoccupati, perché materiale bellico serve al Governo. Ma però ci sono i nostri Massoni di questo paese di Cagnano Varano che ci vogliono schiacciare sotto i piedi, perché sono venuto parecchie circolare per andare a lavorare in Germania. I nostri Signori ci anno fatto fare domanda che a un povero operaio per andare a passare una visita medica e fare domande se ne sono andate più di 50 lire che noi potevamo far mangiare una settimana i nostri propri figli perché i figli degli operai sono proprio figli della bella Patria che ci tengono per la Patria e anche se necessario di stare qualche giorno digiuno.S. Eccellenza Siamo andato dal Federale a Foggia e ci a promesso di partire per la Germania o pure per l’Albania alla prossima partenza ma però ne sono passate quattro partenze ma noi non ci fanno partire. Tutti i paesi sono partiti e questo no come va?Perché i nostri comandanti che ciabbiamo in questo paese ci vogliono tenere sotto i piedi che devono chiamare un operaio e lo devono far lavorare a giornata con dieci lire al giorno che non li bastano di mangiare ai propri figli: che si fanno persino le risate dicono vi potete mangiare anche l’erba Siamo tutti figli d’Italia. S. Eccellenza vi prego di prendere provvedimento di questo che vi o scritto. Vincere.

Il signor Natale – quando i dissidenti sono confinati – si rivolge dunque direttamente al Duce per informarlo che “i massoni/comandanti” del paese ostacolano la partenza sua e di altri concittadini per i campi di lavoro in Albania o in Germania perché li vogliono sfruttare “con dieci lire al giorno che non li bastano di mangiare ai propri figli”.

La lettera viene rispedita dalla Segreteria del Duce in prefettura di Foggia e da questa al comune di Cagnano Varano. Nell’ultima frase sono sottolineate le parole “risata dicono vi potete mangiare anche l’erba”. A margine si legge: “Fate accurata inchiesta per i provvedimenti del caso”.

Queste e altre lettere al duce, al prefetto e al podestà, su cui sto lavorando e che saranno oggetto – spero – di una prossima pubblicazione, attestano lo stato di prostrazione della plebe negli anni del ventennio fascista.

Da allora molte cose sono cambiate soprattutto a livello di progresso materiale, specie in seguito all’emigrazione degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso – non invece morale e di comportamento, per cui mi sembra di potere dire che il carattere del cagnanese possa definirsi sostanzialmente pessimista, diffidente e in competizione, come sottolineano vecchi proverbi locali che recitano:

“Chija tè la casa larga l’à dda nghì de spine” e

“Se vu gabbà lu vucine, gàvezete sùbbete la matina”.

Sfiducia radicata in un passato vissuto da braccianti uomini e donne che, pur distinguendosi per le loro capacità e autonomia, sono stati sfruttati e assoggettati dai padroni-datori di lavoro che erano in genere gli stessi che hanno amministrato il paese ma che non hanno avuto la premura di coltivare la memoria storica.

Diffidenza per la quale l’amico non è una risorsa, di qui la sostanziale chiusura, l’isolamento, la paura di osare da parte di qualche imprenditore, sia perché “chija lassa pane e cappa guaj ngappa” (chi lascia la strada vecchia e prende la nuova sa quello che lascia e non quello che trova), sia perché non si ha fiducia nell’altro ( “sèmena e fa sule e sumènda ‘na mesura”).L’anima del cagnanese è pertanto piuttosto pessimista, a mio avviso proprio per quel passato di miseria, di assoggettamento e di frustrazione che si porta dietro.

E chissà se riusciremo a liberarci da questo passato di servaggio!

A meno che non siamo disposti a intraprendere una vera e propria rivoluzione culturale che ci impegni nella difesa e nell’esercizio del diritto di ogni tipo di libertà:

libertà “di” pensare, accedere all’informazione e agire (che però va commisurata con quella altrui);

libertà “da” costrizioni di carattere economico e limitazioni che impediscano di esplicare le nostre potenzialità;

libertà “per” mobilitare ogni nostra energia per inseguire i nostri ideali e realizzare la felicità dell’umanità.

Ed è proprio questa speranza che mi spinge a fare questo intervento chiarificatore. Mi rivolgo perciò, ai cagnanesi dal cuore grande, per invitarli a non lasciarsi ingannare dalle apparenze, ad essere propositivi e partecipi, a liberarsi da pregiudizi, steccati ideologici, politici e persino psicologici, che creano divisioni e fanno retrocedere. Mi auguro, infine, che tutti noi impariamo ad essere comunità..

91Francesco Monaco, Maria Lucia Crisetti e altri 89Commenti: 24Condivisioni: 14Mi piaceCommentaCondividi

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Pubblicato da su 11 aprile 2021 in riflessioni

 

Coevolvere per cambiare

Coevolvere per cambiare


La condizione della donna è decisamente mutata nel tempo, passando dal modello dell’esclusione/separazione a quello all’inclusione/integrazione nella vita sociale, seguendo un processo ancora aperto. La memoria ci consegna storie di donne violentate, sfruttate, sottomesse all’autorità del padre-marito-padrone, donne impegnate nei lavori domestici e in attività non retribuite realizzate all’ombra della figura maschile.

Donne contadine mietitrici, raccoglitrici, guardiane, pescatrici di lago e di mare, trasportatrici, sarte, magliaie, panificatrici, lavandaie, … .

Donne figlie, mamme, nonne che hanno declinato la vita come un “insieme di sofferenze”. Donne ignoranti che non meritavano di andare a scuola, sia perché non erano ritenute intelligenti, sia perché si pensava non avesse senso investire sulla loro cultura, dal momento che non erano destinate a ruoli sociali, da spendere al di fuori delle pareti domestiche. Per “fare la mamma e la moglie”, insomma, non  era necessario il possesso degli “alfabeti”.

Memoria che affonda le radici nelle pagine della Bibbia, che assegnano ad Eva il ruolo della “tentatrice”, consolidata in epoca medievale, legittimata dalla normativa, assunta dai contesti sociali e familiari tramite la socializzazione, rafforzata dall’universo maschile, quasi sicuramente per non spartire con le donne lo spazio riservato a sé nei posti di comando.

Memoria alimentata quotidianamente dalle stesse donne attraverso l’“educazione di genere” a partire dal costume di regalare la bambola alle bambine e il fucile al maschietto, così addestrando le une “a fare la mamma” e gli altri” a fare il cacciatore”.

L’immagine della donna-angelo intrisa di romanticismo è un eufemismo che non dà certamente conto della reale condizione della donna contadina. Per rendersene conto  e per darne conto alle nuove generazioni ignare della condizione del passato, ho pensato di far parlare le dirette protagoniste, a cui ho dato voce qualche anno fa con i miei alunni liceali attraverso lo strumento delle “storie di vita”.

A seguito dell’industrializzazione e del boom economico la donna comincia ad uscire dal “regno” del focolare domestico e a guadagnare diritti civili, sociali e politici, a partire da quello di voto. La donna può entrare nelle scuole, lavorare in fabbrica, accedere all’università, entrare in politica, dirigere le aziende, … .

Il cammino però non è agevole e a tutt’oggi il processo d’integrazione della donna è incompiuto. La normativa consente l’inserimento ma non tutela l’integrazione, accade, perciò, che i maschi sono privilegiati nei posti di lavoro, di comando, di potere.

Il modello dell’integrazione [che rievoca l’idea della completezza] vuole che la donna viva le situazioni in prima persona, assuma decisioni liberamente, realizzi le sue aspirazioni di donna che lavora, di moglie e mamma, oltre che cittadina, fruendo dei servizi necessari.

La donna integrata è quella che non rinuncia alla sua “diversità” in nome dell’assurda uguaglianza che pretende che il maschio debba comportarsi da femmina e la donna da maschio.  L’integrazione autentica è quella che coltiva l’uguaglianza nella diversità.

Il processo d’integrazione di questa fascia – purtroppo- ancora debole della popolazione è condizionato dal riconoscimento dalla parte dell’universo femminile e maschile della differenza di genere, contrastando ogni tentativo di omologazione; è condizionato dagli educatori e dalle istituzioni che devono dichiararsi disponibili a co-evolvere, vale a dire a cambiare  insieme, a riconoscere che in famiglia, in società, nelle istituzioni di potere ciascun essere umano – sia di sesso maschile, sia di sesso femminile- può apportare il proprio contributo sulla base della proprie competenze, intelligenze e disponibilità.

Co-evolvere vuol dire abbandonare antichi stereotipi che vogliono il maschio intelligente, adatto al comando e al ragionamento, e la donna intuitiva, materna, capace di eseguire.

Co-evolvere in famiglia vuol dire che mariti e mogli dovranno dichiararsi disponibili a darsi una mano, a mettere insieme il meglio di sé di ciascuno per offrire ai propri figli un ambiente caldo e ricco di interazioni utili alla crescita.

Co-evolvere nelle istituzioni significa essere disposti a riconoscere e a valorizzare anche i punti di forza delle donne, consentendo loro di fare carriera, di risolvere – grazie al loro contributo – i conflitti economici, sociali e culturali delle nostra società, ricorrendo alla logica che include. Bisogna perciò allearsi per sostenere, consolidare e c0mpiere altri passi, perché il processo d’integrazione richiede ancora molto impegno.

 
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Pubblicato da su 10 marzo 2021 in Donne

 

Quando la diversità arricchisce: tranche de vie per l’ed. interculturale

Ho conosciuto una giovane rumena di cui mi piacerebbe parteciparvi un pezzo di vita, a mio avviso molto significativo, utile a contrastare e, soprattutto, a prevenire la formazione di stereotipi e pregiudizi sugli stranieri.

Conosceremo questa donna attraverso le sue risposte alle mie domande aperte, volte a scoprire tramite la sua testimonianza, il valore di una “cultura altra”, per il fatto che é diversa dalla nostra, ma non meno importante, ricca anch’essa di valori, riti, miti, storia, tradizioni.

“Tranche de vie” utile per comprendere l’importanza dell’educazione interculturale, che viene a porsi al centro di quel processo di comprensione e dialogo tra i popoli, sempre “in fieri” e attualmente minacciato.

Storia da cui emerge la condizione dell’immigrato, un soggetto che vive in bilico tra due culture: quella d’origine, alla quale rimane legato, simbolicamente e affettivamente (soprattutto alla rete familiare e parentale,) e quella del paese ospitante, di cui subisce il fascino. Una persona in difficoltà, alla continua ricerca di se stesso o, comunque, di un nuovo sé.

Per agevolare la vita di questi stranieri, è opportuno che le istituzioni sociali, politiche e culturali si muovano sinergicamente, articolando gli interventi, incentrandoli sull’accoglienza, comunicazione, organizzazione e progettazione, come in diversi casi si è cominciato a fare.

Passo perciò la parola a Bianca Laura Strîlcîuc, una giovane piena di vita, sensibile, istruita, fortemente intuitiva, che vive in Italia da circa due anni e che ho avuto il piacere d’incontrare a Casa Sollievo della Sofferenza, Nefrologia, di San Giovanni Rotondo nel mese di marzo.

Ha 31 anni, una laurea in giurisprudenza e non disdegna alcun mestiere: assiste, infatti, gli anziani e fa la baby sitter, impartisce lezioni d’inglese a italiani e stranieri, fa la cameriera nei ristoranti e le pulizie di casa. Nel frattempo consolida l’italiano, di cui – come avrete modo di constatare – ha buona conoscenza, frequentando la “De Bonis” del paese ospitante.

È in Italia per dovere di figlia, dato che ha il papà in pensione per invalidità e con poco meno di 100 € mensili non riesce a soddisfare le esigenze di una famiglia di sei persone, e perché vorrebbe realizzare un sogno: una casa di 100 mq, sul suolo che il sindaco della sua città ha deciso di donare ai giovani.

– Appena giunta in Italia, cosa ti ha colpita?

– Mi facevano domande stupide, alle quali a volte rispondevo. Mi chiedevano, ad esempio: – Che cos’è una TV? Hai mai visto una televisione? Gli italiani pensano: – Sei straniero e, perciò, sei anche stupito. Se poi si accorgono che sei un po’ intelligente, che capisci le cose, che puoi insegnarle anche a loro, aiutandoli a fare meglio, non accettano il tuo suggerimento. Solo dopo tanto tempo, si ricredono. Gli italiani pensano che noi rumeni siamo indietro.  Romania non è proprio misera: c’è gente che sta male, è vero, ma non siamo neanche poveri poveri. Ci sono quelli ricchissimi e quelli poverissimi, che non riescono ad arrivare neanche alla fine del mese.

– Quali differenze più evidenti trovi tra gli italiani e i rumeni?

– La gente è uguale dappertutto, solo che noi rumeni siamo più solari, più ospitali nei confronti degli stranieri. Se vai in Romania e la macchina si blocca per strada, la gente si ferma, ti aiuta, ti ripara anche l’automobile. I rumeni farebbero qualsiasi cosa per farti stare bene.

– Parli bene l’italiano. Quando? dove l’hai imparato?

– Qui in Italia. Se conosci diverse lingue è più facile. Io conosco il rumeno, l’inglese, un po’ di tedesco e di spagnolo e ora anche l’italiano. L’ho imparato qui, a San Giovanni Rotondo, dove sto da due anni, vado anche a scuola per conoscere meglio la lingua.

– Dove vivi attualmente? Con cosa ti mantieni?

– Vivo presso una famiglia molto brava. Margherita è la mia mami due. Con me c’è anche la mia sorella gemella, che fa assistenza alla mamma di Margherita. Faccio un po’ di tutto: le pulizie, stiro, do lezioni d’inglese, faccio sei ore a settimana di italiano. Prima ancora ho lavorato ai ristoranti.

– Perché sei venuta in Italia?

– Sono venuta in Italia perché ho avuto delle disgrazie in famiglia: l’incidente stradale di mia madre, prima, la malattia di cuore di mio padre, dopo. Prima stavamo bene. Papà faceva il rettificator di automobili. Era ricercato per il suo lavoro e guadagnava abbastanza. Ci ha fatto studiare tutte le figlie.  Abbiamo anche una casa in montagna. Poi, con meno di 100 € al mese di pensione d’invalidità si faticava ad arrivare alla fine del mese: papà, mamma e quattro figlie femmine. Io e mia sorella abbiamo perciò pensato di venire in Italia. Riesco anche a fare dei risparmi e a mandarli a casa. Voglio costruire una casa per me sul suolo che il sindaco del paese mi ha dato.

Tanti giovani rumeni vanno via da Romania perché la paga è umile. Due anni fa era l’equivalente di circa 100 € mensili. Le medicine, l’abbigliamento, il cibo, i servizi (luce, telefono, riscaldamento) costano. Il giorno prima ti chiedi che devi mangiare domani: si lotta per la fame.

Anche se la mia famiglia non era tanto povera, ho visto gente povera povera, che non aveva niente da mangiare. In ogni famiglia rumena c’è almeno un figlio che sta fuori, per aiutare la famiglia, se no non ce la fa.

Quando c’era Ceauşescu c’erano i soldi, ma non potevi comprare, perché non c’era niente nei negozi. Ora c’è tutto, ma non ci sono i soldi.  Me lo dice spesso mio padre. Al tempo di Ceausescu dovevi lavorare per forza. La polizia ti controllava. Se tu non lavoravi, iniziavi a pensare, a parlare con gli amici e questo non stava bene. Dal 1989, con la fucilazione del dittatore, è iniziato un periodo di caos. Fino al 1994, con tutto quel disordine, si stava, tutto sommato, bene. Poi, con la Repubblica democratica e la Comunità europea, le cose sono cambiate. La democrazia è stata capita male, ognuno faceva quello che voleva. Anche i ragazzini per strada dicevano ad alta voce le parolacce e se qualcuno li sgridava, dicevano: – Lsciami stare, posso fare quello che voglio!

Nel frattempo cosa è cambiato? Alcune fabbriche e miniere sono state chiuse e poi sono state comprate con pochi soldi, o sono state vendute agli stranieri. In una città di minatori, tutti gli abitanti sono rimasti disoccupati dopo la chiusura delle miniere. Alla fine, chi stava prima al potere, i compagni si sono arricchiti, per gli altri la miseria. Poi, non so cos’è successo.

–                     Come ti senti trattata nel lavoro?

–                     Dicono: sei straniera e perciò anche se posso insegnare inglese non mi chiamano o, se mi chiamano, mi pagano di meno, perché sono straniera. Tutti cercano stranieri perché pagano meno.

–                     Hai nostalgia del tuo paese?

Il primo anno è stato più difficile, perché non avevo amici. Ora ho alcuni amici, ma mi manca mio paese. Mi manca mio padre, una persona intelligente, che sa tutto di tutto, come un dottore, come un professore. Ha in casa le mappe di tutti i continenti. Quando stava bene ci faceva viaggiare. Ci ha mandate tutte a scuola. Io ho frequentato 8 anni di scuola generale [ l’equivalente della primaria e media inferiore nostre], 5 anni di liceo e 4 di giurisprudenza.

Papà ci ha insegnato ad essere autonome. A 12-13 anni ha mandato me e le mie sorelle dai nonni paterni, che abitavano in Bucovina, a nord-est della Romania, 1 giorno di viaggio da Sibiu, il mio paese, per vedere come ci gestivamo da sole.

Ho nostalgia della mamma,che tiene sempre unita la famiglia. Senza di lei siamo tutti persi, a cominciare da mio padre. Me la ricordo sempre in cucina

Rimpiango la Seva, l’odore di terre e foglie che emana la mia terra d’estate, quando la neve si scioglie. Rimpiango la mia casa e le passeggiate in montagna, che facevamo insieme agli anziani. Ho nostalgia degli amici, compagni di scuola che ho lasciato. Rimpiango le tradizioni che non posso coltivare.

– Ad esempio?

– Ad esempio da noi in questo periodo si sente che è Pasqua, qui no. Si sente che arriva

Pasqua attraverso le pulizie, che fanno le donne in casa. Vai a confessarti. Dalla mezzanotte di venerdì santo mangi poco e qualcuno non mangia per niente, fino alla comunione pasquale, quando mangi il paşti, il pane e il vino preparato con la farina, l’olio e il sale della comunità. Nel periodo pasquale si decorano le uova sode e si vendono abbastanza bene ai turisti. Noi le mangiamo in domenica di Pasqua, dopo la messa di Resurrezione. Il giorno dopo Pasqua i giovani spruzzano con profumi le ragazze e queste donano dolci o un bicchiere di vino. In Romania seguiamo le tradizioni. Da noi la domenica non si lavora per niente: non si lavano neanche i panni, il pranzo si prepara il giorno prima. Mi mancano tutte questi riti. Questo, però, non in tutta Romania, ma in mia provincia che è di religione ortodossa. Ci sono anche cattolici e altre religioni in Romania.

– Cosa pensi degli italiani?

– La prima cosa che mi viene in mente è che gli italiani pensano sempre a mangiare. Il primo pensiero è: – Cosa mangiamo oggi? Quando mangiano a casa risparmiano: non si deve buttare nulla! Quando vanno al ristorante fanno tanto spreco. L’ho visto, quando ho lavorato al ristorante, dove si buttano piatti che non sono stati toccati per niente. Penso che gli italiani sono anche un po’ tirchi, non nel senso cattivo del termine. Non tutti, però, anche se ho incontrato persone tirchie tirchie, che facevano storie per un centesimo. Penso che i giovani di qui rispettano poco gli insegnanti, vanno a scuola con i pantaloni a vita bassa. In Romania i professori non ti ricevono se sei vestita in un certo modo. Anche il modo di parlare con i professori è da noi più rispettoso. Penso che gli italiani sono rumorosi: quando sono arrivata a San Giovanni Rotondo, alle sei di mattina ho sentito tanto chiasso in strada. Mi sono affacciata alla finestra e mi sono accorta che era solo giorno di mercato. Ho notato che i vicini di casa sono molto curiosi. Penso che gli italiani mangiano molta pasta, come noi  mangiamo molta verdura.

– Un giudizio sui rumeni?

– Quando ero bambina per le strade del villaggio di mia nonna passava un banditore, che, battendo il tamburo, richiamava l’attenzione delle persone e diceva:

–                     Lume, lume [gente, gente]

domani mattina si fa riunione

per rumeni alle 7,30

per ungheresi alle 7,45

per tedeschi alle 8,00.

Tre orari diversi per comunità, che convivono a Sibiu e che hanno diverso senso della puntualità. I più precisi- si sa – sono i tedeschi.

Penso che della Romania in genere si parla male e questo a me non piace. Non si dice, però, che Sibiu [Hermanstadd] è stata eletta capitale della cultura europea 2007, non si parla dei suoi bei monumenti medievali, delle sue bellezze paesaggistiche, della bontà e semplicità della gente.

– Che cosa pensi della relazione stranieri/ prostituzione spaccio/?

– Penso che in Romania ci sono ragazze che vogliono andare fuori e c’è gente che le sfrutta promettendo un posto di lavoro, però non è così, perché le mette sulla strada. Da Romania le ragazze non sanno a cosa vanno incontro. Vengono con câini cu colaci în coada, vale a dire con l’idea che possono trovare in Italia anche “i cani con le ciambelle nella coda”. Quelli che si chiamano tra amici, invece, sono puliti. Certo c’è anche gente che viene proprio per questo [prostituirsi] e gente che viene e, non trovando, lavoro fa questo. Se lo fa per sopravvivere, non può essere condannata. Metti che ha i bambini, che a casa ha una situazione insostenibile, … .

Riguardo alla relazione stranieri- spaccio, devo dire che tra rumeni non si sente parlare tanto di spaccio di droga.

– Progetti per il futuro?

– Da noi nessuno ti dà la possibilità di fare, di mettere in pratica quello che sai: i miei ex compagni di università avevano idee, ma quando d’estate torno a casa per pochi giorni sono io che regalo qualcosa. Loro non hanno i soldi per offrirti neanche una tazza di caffé. In Romania, se non hai soldi, nessuno ti aiuta. Per fare pratica (due anni) bisogna pagare 20000 € a studio per praticandato. Io non li avevo questi soldi e sono andata via.

I miei sogni? Primo: vorrei che mi riconoscessero la laurea qui in Italia, poi voglio fare un master in diritto internazionale, perché vorrei fare qualcosa per gli stranieri. Vorrei aprire un ufficio per le immigrazioni, perché in genere gli stranieri non sanno niente di niente. Vanno dai commercialisti per una pratica, per documenti o per cercare lavoro, e pagano 1000 €. C’è gente che dice: – Io ti trovo lavoro, però il primo stipendio è mio. È troppo uno stipendio! Queste cose le fanno però rumeni assieme a italiani. Sogno ancora di avere una vita normale e una famiglia.

– Il più grande insegnamento?

– L’ho avuto quando ero al mio paese. Ho lavorato in ospedale, perché all’inizio volevo fare il

medico. Là ho incontrato un anziano dottore, una fonte inesauribile di conoscenza, dal quale ho imparato tante cose di fisioterapista, ma soprattutto questo insegnamento:- Non ti accontentare mai di quello che sai, impara sempre di più e vai sempre avanti. E io non dimentico mai.

 
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Pubblicato da su 10 marzo 2021 in Donne

 

La zia Giovannina

La zia Giovannina

Per la festa della donna vorrei ricordare il caso singolare della zia Giovannina, di cagnano varano, figlia del calzolaio Teopista Paolino (1888 – 1952). Questa donna nella la prima amministrazione postfascista, ricoprì la carica di assessore alla pubblica istruzione e per le votazioni del 31 marzo 1946 elaborò un testo che presentò in prima persona in un comizio elettorale, il quale attesta la sua fede convinta nel partito comunista. Ecco cosa scrisse e lesse agli elettori. 

“- Proletari, …non fatevi ingannare dalla borghesia… che approfittando della vostra ignoranza vi presenta la croce di Cristo per rubare il voto. … Adesso si presentano a voi chiamandovi compari e vi promettono chissà quale miglioramento sociale, ma dopo che gli avrete messo le briglie nelle mani vi sapranno comandare e ben scudisciarvi. … Pensate ai tempi del loro comando a quante volte vi trattarono come cani rognosi. … Domandate a codesti ingannatori perché al loro tempo vi fecero bastonare, togliendovi ogni diritto di vota civile. Vi fecero incarcerare perché  reclamavate per la molitura del grano, perché la fame picchiava alla porta del vostro stomaco e a quella delle vostre innocenti creature. Domandate a questi nuovi compari, loro si nutrivano con solo 150 grammi di pane al giorno? Domandate se non vestivano sempre di vigogna e calzarono sempre scarpe di vitello. Le cattive conseguenze della guerra le pagarono solamente i poveri, quelli cioè che non volevano la guerra. … Quindi, mio caro proletariato, quale miglioramento potrete ottenere voi se mandate all’amministrazione sempre quei tali gaudenti che non sanno cosa sia soffrire? Cosa sia la fame? Cosa sia avvolgere il corpo di cenci quando soffia la tramontana, cosa sia scivolare per le vie con pesanti zoccoli? Il grano, l’olio del povero lavoratore veniva ammassato rigorosamente. Dei lavoratori venivano requisite le case, le campagne e i tribunali gremivano di questa povera gente. Le paure e le minacce erano il compenso della fame. I gaudenti spensierati avevano pieni i magazzini e si mercanteggiava pure a negozio nero. … Ora i gaudenti vi promettono il paradiso e quel che è peggio chiamano i comunisti senza Cristo. Io rispondo che i senza Cristo sono proprio loro perché infamano chi non predica altro che la dottrina di Cristo, che predicava: – Distaccatevi dai beni e allora potrà venire l’uguaglianza e la pace tra gli uomini. I comunisti vogliono la Russia. I comunisti vogliono il divorzio. I comunisti vogliono la disgregazione della famiglia! Già perché secondo loro i comunisti non amano le loro creature.

 I comunisti vogliono la distruzione dei beni. Invece i comunisti vogliono che tutti gli uomini abbiano un tetto, un letto, un pezzetto di terreno e quanto Iddio ha messo sulla terra per goderla ugualmente perché siamo tutti figli dello stesso creatore. … Proletari unitevi, siate fratelli della vostra stessa classe dei diseredati e se anche fra voi vi siano dei dissensi questo è il momento di dimenticarli”.

La zia Giovannina conseguì il diploma magistrale, ma non l’abilitazione perché, rispettosa della sua ideologia, non si è voluta sottomettere alle regole del regime, che prevedevano il tirocinio a scuola, ma questo senza la tessera fascista non si poteva effettuare.

Così la zia Giovannina continuò a lavorare privatamente, a fare l’infermiera, la fotografa e a militare in politica, organizzando incontri sindacali nei quali poter affrontare i problemi dei lavoratori e militando nel P.CI., partecipando insieme al padre pressoché analfabeta, il quale se la portava dietro “perché sapeva parlare bene”.

I comunisti si riunivano allora nelle grotte, che non mancavano in paese, data la natura carsica del territorio, per non farsi scoprire.

La zia Giovannina aveva vedute larghe per quei tempi, non si sposò, ma adottò due bambini: Mario Paolino Costanzucci (che seguendo le orme della madre adottiva fu militante attivo nel P.CI.I. per circa mezzo secolo a Cagnano Varano) e Rita. Suo padre all’epoca della spedizione dei Mille non volle arruolarsi e, disertore, scontò dodici anni di carcere.

Il caso della zia Giovannina è singolare anche per questo. Bisogna pensare che gli eventi di questa storia di vita si riferiscono agli anni trenta/ quaranta del secolo scorso e che la zia Giovannina ha operato in un contesto storico in cui le donne non potevano assumere decisioni “fuori dalla norma” e si tenevano a debita distanza dalla politica.

 
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Pubblicato da su 10 marzo 2021 in Donne

 

Un caso singolare: Mastro Totonne la fèmmena

Un caso singolare: Mastro Totonne la fèmmena

Saggio introduttivo tratto da  “Essere donna tra Otto e Novecento”, Progetto del liceo sociopsicopedagogico Cagnano Varano S.S. “G. DE ROGATIS”, realizzato con gli alunni delle Classi IV A, IV B, V B, referente prof.ssa  Leonarda Crisetti, Dirigente Prof. A. Scalzi, con adattamenti.

Nel corso della ricerca abbiamo avuto modo di conoscere la storia di Màste Totònne, la fèmmena, una donna che si spoglia degli status e ruoli tradizionali. Dagli Atti di nascita del comune di Cagnano Varano si apprende che questo personaggio è di sesso femminile, nasce “l’anno 1880, addì 15 dicembre a ore antimeridiane dieci e cinquantatré”, si chiama Mariantonia, suo padre fa il pescatore e sua madre è contadina. Dall’ufficio anagrafe apprendiamo, inoltre, che Mariantonia muore il 2 aprile 1967 dopo aver abitato nell’antica via Cannesi, 12.

Mariantonia decide di vivere da uomo, quindi di non conformarsi ai compiti ascritti dal tessuto sociale del suo contesto ad una donna.

Ci siamo interrogati sulla reazione dei cagnanesi di fronte alla “transizione” evidenziata da Totònne, che decidendo di assumere identità maschili, intese passare di fatto da uno status all’altro. Ci siamo chiesti, se la scelta le abbia reso la vita difficile. Insomma, un contesto in cui la popolazione era divisa dicotomicamente in maschi e femmine, in che misura ha consentito a chi era nata donna di assumere comportamenti maschili, quando la differenza voluta dalla natura e resa manifesta dal sesso biologico era rigida e per tutta la vita bisognava essere o uomini o donne?

I cenni biografici dicono, inoltre, che Màste Totònne aveva una sorella, che, rimasta orfana fu adottata da una famiglia di possidenti (i Palladino, persone gentili e generose- secondo gli intervistati), che fino agli anni della pubertà ha condotto un’esistenza pressoché simile a tutte le ragazze di Cagnano, che negli anni dell’adolescenza avvertì l’esigenza di rendersi indipendente e di cambiare identità.

Ci  siamo chiesti anche se siano state esigenze di natura economica a spingerla in tale direzione e, sebbene questa variabile abbia avuto un certo peso, dato che in un contesto storico caratterizzato dalla miseria ci si adattava a tutto pur di sopravvivere, esso non ci è sembrato determinante.

Questa ipotesi, non soddisfa del tutto, soprattutto se si considera che anche altre donne condividevano la precarietà dell’esistenza. Le testimonianze raccolte sono pervase dalla fame e dalla fatica a cui erano sottoposte molte donne del luogo. Mentre le altre si sono arrangiate in mille modi, svolgendo lavori nei campi, anche pesanti (seminare, sarchiare, mietere, spannocchiare, effettuare la raccolta), in laguna (adoperandosi nella realizzazione di trappole da pesca e persino remando e pescando), in casa (sottoponendosi alle pesanti fatiche del bucato, della conserva, della provvista d’acqua, del pane), accudendo ai figli ( bisognosi delle cure e dell’educazione materna) e al marito (che esigeva di essere sempre servito e coccolato), Mariantonia per sostenersi volle fare il muratore.

Decise perciò di vestire da uomo e di esercitare mestieri prevalentemente maschili. Il suo aspetto era invece decisamente femminile: statura bassa, viso tondo, espressione gioviale e sorridente, voce sottile.  Anche la sua capacità relazionale e la sua amorevolezza sembrano richiamare caratteristiche attribuite tradizionalmente alle donne. Eppure, Mariantonia nella fase più fragile della vita scelse di assumere comportamenti da maschio e da allora per tutti fu màstre Totonne, la fèmmena.

Questa donna, “la fèmmena”, decidendo di fare il muratore e vestendo da maschio non meritava più di essere chiamata col nome di battesimo, bensì màstre [maestro] Totònne (diminutivo di Antonio). Il tribunale del popolo aveva ormai deciso.

Viene da chiedersi quale sia stata la sua vita da bambina, quali eventi possono avere concorso alla determinazione della sua scelta. Se è andata a scuola, se aveva amici d’infanzia. Le notizie in nostro possesso non sembrano essere sufficienti a giustificare qualche inferenza.

Si è messa i pantaloni, perché li gunnèdde la ngiappàvene quànne ièva vutànne càse [ ha indossato i pantaloni perché le lunghe gonne l’avrebbero ostacolata nel riparare i tetti delle case, sostituendo tegole].

Nemmeno questa giustificazione, addotta dalle signore e dai signori  intervistati per legittimare il fatto che Mariantonia indossasse abiti maschili, sembra essere soddisfacente, perché non dà conto di come mai, una volta tornata a casa, nel tempo libero, o nei giorni di festa abbia continuato a vestire da uomo.  L’ipotesi non giustifica la decisione di castigare “il suo bel seno”, fino a farlo scomparire, imprigionandolo di continuo in strette fasce.

Mariantonia teneva, infatti, a nascondere i segni che manifestavano la sua femminilità, ma l’impresa non fu sempre agevole. Un signore (affascinato da questo personaggio), ricorda che da bambino, negli anni Cinquanta del secolo scorso, mentre lo aiutava a trasportare la càvecia a pprète nel calcinaio – che Totònne gestiva in un vano del Palazzo Petruzzelli -, ha visto “le sue cose” e che fu  “corrotto” da Mariantonia con un dono di cinque lire, per comprare il suo silenzio. 

Per tutta la vita, dunque, il nostro Totònne cercò di custodire gelosamente il segreto di essere donna e il dubbio sulla sua identità non è stato del tutto svelato, tanto che alcuni signori anziani ancora oggi continuano a discutere e a scommettere su di essa:

– Io ti dico che era un maschio! – dice una signora.

– E io so che era una donna! – ribatte il marito.  

Probabilmente Màste Totònne la fèmmena era semplicemente un diverso e se questa congettura è esatta, bisogna convenire che Mariantonia fu molto coraggiosa nell’assumere la sua decisione e nell’interpretare ruoli decisamente decontestualizzati.

La persona ogni giorno obbedisce sia pure inconsapevolmente a mille regole imposte dai costumi (mores) e usanze (folkwais), imperativi impliciti che permettono l’agire razionale, consentendole di vivere con una certa tranquillità, sapendo dunque cosa ci si aspetta da lei o a che cosa va incontro.

Per Mariantonia sarebbe stato molto più semplice e facile adeguarsi al proprio ruolo, le (gli) avrebbe consentito di condurre una vita più agevole, al riparo di rischi eccessivi, interferenze, problemi inconsueti, ma ella (lui) volle andare controcorrente, tollerando sia il disprezzo di sua sorella – che ad un certo punto non volle più avere rapporti con lei – sia della gente [il sorriso ironico e divertito dei passanti, le dichiarazioni ad alta voce dei bambini che urlavano:- Totònne la fèmemn! Totònne la fèmmena!]. Sicuramente e soprattutto all’inizio tutti dovettero osservarla, proprio come si fa con un animale allo zoo.

Chi ha la vagina e non il pene deve comportarsi da donna. La differenza era segnata dal sesso biologico, dunque, ma anche dai giochi e dal carattere. C’erano alcune attività ludiche più adatte alla donna, (ad esempio giocare con la pùpa de pèzza, o a lli cummàre) ed altre più consone ai maschi (ad es. giocare con il cavalluccio, a fare il cacciatore o il pescatore). Quanto al carattere, la donna doveva essere timida, sessualmente innocente, passiva, accomodante, allegra.

I costumi morigerati dell’epoca richiedevano anzitutto che la donna indossasse la gunnèdda, per cui il primo grande ostacolo, che il nostro personaggio dovette affrontare, si presentò allorché decise di indossare i pantaloni. Il fatto che sia andata da una delle autorità più rappresentative della provincia, il prefetto – secondo alcuni testimoni-  i carabinieri e o il podestà – secondo altri –  per chiedere il permesso, è significativo; sicuramente la dice lunga sulla rigidità della morale che vigeva allora a Cagnano. Era infatti severamente proibito alle donne vestire come i maschi.

Chissà come erano pressate le ragazze dalle mille regole, tabù, divieti, abitudini consolidate, imperativi categorici di mamme, nonne, zie, vicine, prediche del parroco, schiaffoni del papà e dei fratelli … ! Si, per gli uomini poteva essere un po’ meglio, ma non tanto.

Non conformandosi alla consuetudine, Mariantonia non poté essere definita una donna “normale”. Evidentemente il sesso non ha avuto un peso determinante, dato che  le interazioni con la cultura hanno preso il sopravvento nella nostra Mariantonia e, sebbene la società proibisse gli spostamenti volontari e permanenti da uno status sessuale comportamentale all’altro, ella accettò la sfida.

La letteratura insegna che il controllo sociale concede una certa tollerabilità nell’esercizio del ruolo, ma si tratta di una specie di gioco temporaneo. A Carnevale, ad esempio, la società contadina consentiva al maschio di indossare abiti da donna e a quest’ultima di mascherarsi da uomo. Finita la festa, però, ognuno doveva rientrare nel suo ruolo, tornare ad assumere i comportamenti tradizionali, pertanto l’òmmene avèva fa l’òmmene e la fèmmena avèva fa la fèmmena. In caso contrario scattava la sanzione inflitta dal controllo sociale. Ogni persona, perciò, piacente o nolente, doveva agire in base alle prescrizioni sociali.

Ci siamo chiesti anche se màste Totònne la fèmmena fosse consapevole della sua diversità, se fosse conscia del percorso alternativo prescelto e delle sanzioni prescritte, ma a giudicare dalla giovialità e serenità delle relazioni avute, sia con altre donne del quartiere, sia coi bambini, sembrerebbe che abbia vissuto una vita piuttosto tranquilla sotto questo profilo. Diversi signore e signori intervistati, soprattutto vicini di casa, nel quartiere de Lu Caùte in cui trascorse la sua esistenza, sdrammatizzano affermando che le (gli) volevano bene grandi e piccoli. I bambini in particolare perché Màste Totònne regalava loro miele e biscottini.

Probabilmente la sua affabilità ha avito il sopravvento sulla “diversità”, allora connotata negativamente, facendosi così accettare. “Se la faceva con tutti, con i ricchi e con i poveri – conferma il signor Facenna, che si è preso cura di lei nell’ultimo decennio della sua vita”.

Ma se mastro Totònne riuscì a svolgere ruoli prevalentemente maschili, facendo il muratore, l’imbianchino, l’apicultore, senza suscitare eccessive critiche da parte della gente, allo stesso non fu dato modo di cambiare status: il suo posto nella società rimase pertanto quello ereditato alla nascita. Quando morì, infatti, la famiglia che si era presa cura di lei, la vestì da donna, “perché doveva tornare a Dio così come Dio l’aveva fatta”.

Come percepisse la sua identità non ci è dato modo di sapere, né possiamo affermare con certezza se è stata la necessità economica o quella biologica a prendere il sopravvento. Noi possiamo solo esprimere qualche opinione e se ragioniamo con la mente di allora – che sotto questo profilo è simile a quella di oggi -, ci viene da supporre che probabilmente questo personaggio non potendo essere né uomo né donna fino in fondo, abbia condotto l’esistenza da sradicato. In altri termini egli non fu né Mariantonia, in quanto si privò delle gioie di essere corteggiata e di mettere al mondo i figli, né Totònne, non potendo fare “il cacciatore” ed integrarsi completamente  nel mondo maschile, e chissà se fu felice per davvero. La sua femminilità si accompagnò ai comportamenti maschili da lei voluti e assunti, senza essere stata messa a tacere definitivamente, neanche dopo la sua morte, tanto che per tutti è ancora Màste Totònne, la fèmmena.

 
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Pubblicato da su 10 marzo 2021 in Donne

 

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Nella condizione della donna il retaggio dell’ideologia fascista

 
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Pubblicato da su 10 marzo 2021 in Donne

 

Nella condizione femminile il retaggio del modello educativo della società contadina consolidato dalla politica fascista

Nella condizione femminile il retaggio del modello educativo della società contadina consolidato dalla politica fascista

  Il modello educativo  del regime fascista e la propaganda

A ben guardare, nella società italiana soprattutto del Mezzogiorno sopravvive il retaggio del modello educativo patriarcale nel ventennio plasmato dall’Organizzazione Nazionale Balilla, che addestra i Balilla e gli Avanguardisti all’esercizio delle qualità virili, le Piccole e le Giovani Italiane al disbrigo delle faccende domestiche e alla cura. Alle donne è concesso pure di fare ginnastica per irrobustire il loro fisico, mettere al mondo figli sani, migliorare la razza italica.

Per diffondere il modello della donna muliebre e prolifica e fare incrementare il tasso di natalità dell’Italia, per tenere le donne sotto controllo, prevenire il dissenso e acquistare consenso,  Mussolini utilizza inoltre le organizzazioni di massa: cinema, radio e stampa propongono infatti l’immagine della donna rustica, tranquilla, con numerosi figli e madre-patriottica, contraltare della donna di città, magra, isterica, sterile, decadente.

E se le donne borghesi disdegnano l’idea di vedersi  paragonate ad macchina procreatrice e ad un coniglio, le figlie della classe operaia continuano a pensare che avere una famiglia numerosa sia un punto di forza. A seguito dell’insistente propaganda, però, anche le donne liberali e indipendenti e quelle prima attive e solidali con la classe operaia, pur non condividendo la visione della donna propagandata da Mussolini, finiscono generalmente con l’assecondare il progetto del Duce ed entrano a fare parte di istituzioni fasciste.

Nel modello educativo la misoginia del Duce e del tempo

La considerazione della donna da parte di Mussolini è in ogni caso bassa e sprezzante, come si evince dai suoi scritti:

La donna deve obbedire. Essa è analitica, non sintetica. Ha forse mai fatto dell’architettura in tutti questi secoli? Le si dica di costruirmi una capanna, non dico un tempio! Non lo può! Se io le concedessi il diritto elettorale, mi si deriderebbe. Nel nostro Stato essa non deve contare.

La donna secondo il duce  non è in grado di effettuare tutte le operazioni logiche della mente, ragione per cui ella non deve decidere, non deve votare, non deve contare. La donna per Mussolini, come la folla, è un soggetto da sedurre e dominare. Sulla stessa lunghezza d’onda del duce è il filosofo-pedagogista Giovanni Gentile per il quale la donna non solo vale meno dell’uomo, ma è un oggetto che appartiene al marito:

La donna non desidera più i diritti per cui lottava […] (si torna) alla sana concezione della donna che è donna e non è uomo, col suo limite e quindi col suo valore […]. Nella famiglia la donna è del marito, ed è quel che è in quanto è di lui..

Gentile è anche l’architetto della riforma della scuola (1922-24), statalizzata e strumentalizzata anch’essa dal regime per impartire un’istruzione diseguale tra i generi dello stesso ceto oltre che dell’interceto, dando facoltà ai figli maschi delle famiglie benestanti di frequentare i licei e le università ed entrare a fare parte della futura classe dirigente e alle figlie delle benestanti di frequentare tutt’al più la scuola magistrale che le abilita a insegnare ai piccoli. Per i figli e le figlie del popolo è sufficiente invece la frequenza dell’elementare.

Un modello che restringe i diritti delle donne

Mussolini non riconosce alla donna il diritto al lavoro retribuito svolto nelle industrie cittadine, perché potrebbe distrarla dal suo compito principale, che è quello di fare i figli per la famiglia e per la patria. Pensa inoltre che il lavoro sia utile all’uomo, perché lo rende forte e coraggioso, non per la donna perché comprometta la sua capacità di generare, però, ella può dedicarsi ai lavori della campagna.

Bisogna convincersi che lo stesso lavoro che causa nella donna la perdita degli attributi generativi, porta all’uomo una fortissima virilità fisica e morale.

L’occupazione femminile “ove non è diretto impedimento distrae dalla generazione, fomenta una indipendenza e conseguenti mode fisiche-morali contrarie al parto”- scrive ancora il duce che, per realizzare l’Italia rurale che ha in mente, deve frenare l’esodo dalle campagne della manodopera femminile.

Le idee di Mussolini collimano con quelle di intellettuali del tempo come il cattolico Ferdinando Loffredo, docente di demografia all’università Regia di Perugia, nonché Ispiratore intellettuale della politica sociale e della famiglia del regime fascista, il quale in Politica della famiglia postulata “la minore intelligenza della donna” – a suo parere “indiscutibile” – e afferma che la più grande soddisfazione della donna è quella di starsene a casa a fare la mamma onesta accanto al marito. Pensa inoltre che il lavoro femminile produca la “mascolinizzazione” della donna avviandola “alla sterilità” e l’aumento della disoccupazione maschile. La donna che lavora insomma inquina “la vita della stirpe”. Come disincentivarla? È sufficiente farla oggetto di ludibrio pubblico:

 “[…] deve diventare oggetto di disapprovazione, la donna che lascia le pareti domestiche per recarsi al lavoro, che in promiscuità con l’uomo gira per le strade, sui tram, sugli autobus, vive nelle officine e negli uffici […] .

La donna è dunque discriminata dal punto di vista del lavoro, perché il modello fascista vuole che se ne stia a casa, intenta a sbrigare le faccende domestiche, a fare la moglie obbediente e la madre esemplare, e ostacola il lavoro extradomestico retribuito della donna, dato che l’indipendenza economica potrebbe farle venire grilli per la testa e sminuire l’uomo.

La condizione della donna negli anni del regime regredisce anche sul piano giuridico, perché la legge fascista affida al padre il ruolo di capofamiglia (il marito dà il suo cognome alla moglie e il nome ai figli, la moglie è tenuta a seguire il marito, a vivere sotto lo stesso tetto, a cooperare con lui e ad essergli fedele, pena l’accusa di adulterio, considerato crimine solo se commesso dalla donna) e restringe i diritti della donna, riconoscendole solo il possesso di abilità esecutive non invece di concetto, così allargando la forbice delle disuguaglianze di genere (la Riforma Gentile esclude le donne dalla nomina a preside, dal 1926 le donne non possono insegnare lettere e filosofia ai licei, né tutte le materie agli istituti tecnici e alle medie; dal 1927 i salari delle donne vengono dimezzati rispetto alle corrispondenti retribuzioni degli uomini; dal 1933 le donne possono essere assunte nel pubblico impiego per svolgere mansioni esecutive; dal 1934 i concorsi riservano loro solo pochi posti oppure le esclude).

La donna è disuguale sul piano politico, vedendosi negato il diritto di voto che pure Mussolini aveva promesso nel 1919, quando militava nei Fasci di combattimento. Nella sezione politica del Programma si legge, infatti: “Noi vogliamo il suffragio universale a scrutinio di lista regionale, con rappresentanza proporzionale, voto ed eleggibilità per le donne”. Ed è questa la ragione per cui, prima del 1925, donne progressiste, vecchie compagne di lotta del Mussolini socialista, come Margherita Sarfatti, Regina Terruzzi e Teresa Labriola, che sin dal 1917 hanno condiviso il programma dell’Associazione nazionalista, aderiscono al movimento considerato “una forza moderna e liberatrice”. La promessa del suffragio femminile non è però mantenuta dal governo fascista e la donna può sostenere solo spiritualmente il  PNF senza essere “politicante” , come recita lo statuto dei Fasci Femminili del 4 dicembre 1921:

La donna fascista eviterà, quando non sia richiesto da un’assoluta necessità di assumere atteggiamenti maschili e di invadere il campo dell’azione maschile. Le donne del Gruppo femminile fascista non vogliono essere politicanti, ma hanno il dovere di seguire spiritualmente tutto il movimento politico del P.N.F. .

Diritto che le donne si sono pure guadagnato soprattutto negli anni del primo conflitto mondiale quando, gli uomini al fronte, quelle del Sud hanno preso in mano le redini dell’azienda familiare e le donne del Nord hanno occupato i posti dell’industrie, dando prova delle proprie capacità. Ma forse proprio il loro irrompere nella vita pubblica è alla base della “restaurazione della sudditanza”.

La condizione di inferiorità della donna contadina

Le storie di vita da me e dai liceali raccolte più di un decennio fa a Cagnano Varano intervistando le nonne cresciute con gli ideali fascisti, attestano la condizione di inferiorità della donna rispetto all’uomo e danno conferma delle difficoltà di essere figlia, moglie e madre negli anni del ventennio. Da nubile la donna è soggetta al padre, al nonno, al fratello maggiore, da coniugata al marito, per tutta la vita alle regole imposte dal vicinato.

La donna nasce per sposarsi e quella che per svariati motivi non riesce a trovare marito non si sente realizzata e non è ben vista dai paesani. Vive l’attesa di essere scelta, spesso, lavorando a giornata per mettere da parte un po’ di soldi e farsi la dote.

La donna sposata si mostra rassegnata, ubbidiente, disposta a farsi ammazzare di botte: non può prendere iniziative, non può protestare, non può denunciare, non perché è priva di capacità decisionali e di discernimento, ma perché è imbrigliata dai costumi, dalla morale cattolica, dalla dipendenza economica, dalle leggi che non le consentono di vivere in autonomia. Per non farsi criticare dai vicini e per non infrangere le leggi dello Stato, accetta l’unico ruolo che le viene riconosciuto che è quello di moglie-madre, tanto più apprezzata quanto più elevato è il numero dei figli che è in grado di mettere al mondo. Una condizione subalterna e riduttiva nelle realtà rurali già radicata, inasprita dalla politica demografica messa in atto da Mussolini, che riporta la donna nel suo posto accanto al “focolare” di cui è l’“angelo”.

Quando, con la chiamata alle armi, i posti lasciati vacanti da mariti, fratelli e padri vengono occupati da sorelle, madri e mogli, le donne escono dall’ombra e, il 2 giugno 1946, esercitano finalmente per la prima volta il diritto di voto. Passano gli anni e le donne fanno altri passi avanti verso l’emancipazione dai ruoli tradizionali assegnati, acquisendo via via consapevolezza di sé e dei propri valori incentrati sulla “persona”. 

Donne, uomini e la difficile transizione

Dal  secondo dopoguerra ad oggi molte cose sono cambiate. Donne e uomini sono impegnati a svolgere nuovi ruoli che però non sono in grado di interpretare a pieno. La donna, libera da vecchi stereotipi e vincoli culturali, va alla ricerca di nuove opportunità, svolge mansioni prima esclusive dell’uomo, senza essere tuttavia pienamente soddisfatta. L’uomo, perduta la posizione di comando e la considerazione di un tempo, si sente insicuro, inadeguato, fragile, nella mani di donne non di rado narcisiste, egocentriche e individualiste, incapaci di coltivare legami duraturi. E se le donne, incentrate su se stesse, non sembrano disposta a disperdere le energie dietro al marito, gli uomini che hanno smarrito la propria identità risolvono la sua crisi chiudendosi o attaccando. Accade quindi che nelle famiglie una piccola incomprensione diventa l’ostacolo che rende difficile la convivenza, fomenta ulteriori incomprensioni e porta al distacco.

Mi viene in mente a questo riguardo un passaggio del racconto di nonna Giovanna, una donna cresciuta secondo il modello fascista che non si è risparmiata nulla (ha fatto la moglie, la mamma, la contadina, la raccoglitrice, la pescatrice, l’operaia) ed è stata comunque fatta martire dal marito, là dove considera:

  •  Ojie li fèmmene fanne subbete li rrobbe a duje mendune

(lett. le donne oggi dividono presto i panni in due mucchi),

guardando con sospetto le donne che, dimentiche del progetto di vita costruito e condiviso col proprio partner, al primo conflitto decidono di separarsi.

Le donne sono “soddisfatte” di tutto, prosegue nonna Giovanna, riferendosi a quelle donne che antepongono ai figli e al coniuge la propria realizzazione e non sono disposte a sottoporsi a qualche rinuncia o a scendere a quei compromessi che la vita in due richiede, perché il matrimonio è come uno “sgabello a tre gambe” e, affinché resti in piedi, necessita di impegno, dato che il suo equilibrio è sempre precario.

Per  superare lo stadio di crisi e di disorientamento che caratterizzano questa età di transizione, bisogna andare oltre la logica funzionalista della divisione dei ruoli, che contrappone l’uomo forte e detentore del potere e del comando alla donna fragile, sottomessa, incapace di gestire; occorre trarre profitto dal cambiamento per tessere relazioni nuove svincolate dai limiti imposti dalla tradizione e costruire un nuovo equilibrio che faccia tesoro delle differenze e dei ruoli rivisitati. La funzione “materna” di cura, ad esempio, non è prerogativa esclusiva della madre, come quella economica e di dettare regole non lo è solo del padre.

La strada verso l’uguaglianza non è dunque piana, a causa del conflitto che nasce dalla convivenza di vecchi paradigmi educativi, radicati negli anni del regime, e di nuovi modelli, che s’ispirano al principio dell’uguaglianza senza fare distinzione di “sesso”, espresso” all’art. 3 della costituzione italiana, nonché ai tempi mutati e alle mode. È però necessario uno sforzo congiunto, perché si riduca la forbice della disuguaglianza e affinché si esca fuori dalla sofferenza del genere maschile e femminile che l’emergenza Covid ha inasprito, oltre che il sostegno delle istituzioni. E chissà che non si riesca ad arginare in questo modo anche il fenomeno della violenza!

 
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Pubblicato da su 8 marzo 2021 in Donne

 

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